Venerdì mattina abbiamo affrontato, con Alessio Sperlinga, la tematica del gioco.
Si è parlato, in particolare, della “realtà in gioco”; di come sia possibile simulare la nostra realtà in un gioco. Una realtà che per molti è più avvincente e coinvolgente della realtà empirica.
Facciamo, però, un passo indietro. Quando si parla di gioco, si parla non solo di sport o giochi in scatola, ma anche, appunto, di giochi che riproducono la realtà in dimensione virtuale. Giochi che ci proiettano in uno spazio parallelo e che chiamiamo giochi online o videogames.
Quello che subito è stato sottolineato è la diffidenza e la scarsa considerazione che molti hanno nei confronti di questi giochi.
Perché allo sport viene dato un valore e un’importanza che i giochi e i videogames non ricevono?
Perché lo sport e le nostre capacità e formazioni sportive vengono citate nei nostri curricula, mentre nessuno scriverebbe che gioca ai videogames?
È interessante focalizzare l’attenzione sul verbo “giocare” e notare la sua diversa valenza, a seconda di come venga utilizzato: se dicessimo, ad esempio, “gioco a tennis”, l’enfasi si sposterebbe sulla parola “tennis”, attribuendo alla frase e al gioco stesso una certa aurea; ma, se dicessimo “gioco a Candy Crush”, l’attenzione, quasi sicuramente, si soffermerebbe solo sul verbo “gioco”, in un’accezione quasi blanda.
Di per sé, nelle due frasi cambia la tipologia di gioco, ma l’intento, la realtà di ciò che stiamo facendo, l’attività che svolgiamo, ruotano sempre attorno al concetto del “giocare”.
Perché, dunque, in un caso “giocare” risulta serio e apprezzabile, mentre nell’altro caso risulta quasi frivolo e secondario? Insomma, concetti simili, ma reazioni diverse?
Questo ci fa capire come, evidentemente, il problema risieda nel forte pregiudizio che abbiamo sui giochi. Pregiudizi che creano una chiusura mentale nella visione e percezione comune della società su questa tematica.
Chi gioca, chi ama giocare e chi vive queste realtà virtuali, spesso non viene compreso, viene visto come un alieno che vive rinchiuso nella sua camera, davanti a uno schermo, estraniandosi da tutto e da tutti.
Ogni situazione deve, però, essere inquadrata e analizzata da entrambi i lati della medaglia.
Così, per andare oltre la visione comune e per cercare di capire cosa succede “dall’altra parte”, abbiamo citato la nota scrittrice Jane McGonigal. Questa donna scrive e racconta la realtà in gioco e come il gioco presenti grandi potenzialità che la realtà stessa non conosce o non può offrire.
È emerso, in primis, che i giocatori abbandonano la realtà per mancanza di soddisfazioni, di una vita piena o di una comunità stimolante. Le persone trovano rifugio e sfogo in questa sorta di mondo parallelo, dove tutto il reale può essere riprodotto, vissuto e condiviso. Un mondo in cui cresce la motivazione di fare, di perseguire, perché nel gioco esiste sempre un obiettivo ed è sempre raggiungibile.
Nei giochi siamo stimolati a superare ostacoli non necessari, ma lo facciamo perché non esiste la paura del fallimento. Fallire, deludere, rischiare senza certezze sono, invece, delle costanti nella vita reale.
Queste affermazioni sembrano già dimostrare che qualcosa nella realtà non funziona.
Perché tante, troppe persone tentano ogni giorno la fuga dalla realtà empirica? Perché tutte queste insoddisfazioni? Forse la società, col tempo, pone troppi obiettivi, troppe aspettative; ma il più delle volte, questi obiettivi sono irraggiungibili, impossibili. La nostra mente non è disposta a disperdere energie in qualcosa che richiede sforzi, per lo più, non ricambiati. Questo stato mentale e questo ostacolo, talvolta, generano, infatti, depressione.
Il gioco sembra non conoscere questa sensazione; anzi, pare che il gioco generi, piuttosto, un’attivazione emozionale di grado positivo.
Con i giochi tendiamo a concentrare le nostre energie su qualcosa in cui siamo bravi e che ci piace. Questo genera ottimismo e determinazione in ciò che facciamo. Un ottimismo che spesso non troviamo nel nostro lavoro o nei nostri studi; forse, perché non sempre ci troviamo a fare ciò che avremmo voluto, o magari ci troviamo a farlo, ma in un contesto poco stimolante, con persone attorno che non ci motivano e non ci gratificano. Da ciò può derivare una situazione di bornout, di stress e logoramento.
Stati emotivi che non appartengono alla realtà del gioco, anche perché qui possiamo decidere noi quando iniziare e quando fermarci. Possiamo decidere i nostri tempi; e al tempo stesso impedirci di cadere nella dipendenza.
Si crea dunque una sorta di mondo “quasi perfetto” in cui, oltremodo, si instaurano e tessono reti sociali e parasociali molto solide. Rapporti e legami interpersonali che nel mondo reale, invece, si sono fatti sempre più deboli.
Un mondo, quello del gioco, che sembra conferire a tutto ciò che si fa e si crea un aspetto quasi epico. L’eroicità dei nostri gesti, nella vita reale, sembra un altro step sconosciuto. Tutto è omologato, tutti sembrano fare le stesse cose, tutti vogliono le stesse cose; e ogni gesto, anche il più profondo, sembra non assumere più valore.
Da questo quadro, appare chiaro, almeno per Jane McGonigal, chi sia il vincitore della partita tra realtà e gioco.
Alla luce di tutte queste scoperte e constatazioni, in qualche modo sorprendenti, dovremmo quindi domandarci “cosa non va là fuori?”.
Dovremmo sì, cercare soluzioni alternative in queste realtà parallele, ma, forse, prendere anche spunto da tutte le considerazioni viste e cercare di riparare e ritrovare fiducia e speranza nel genere umano e nel mondo empirico.
Il gioco può essere una valida alternativa, ma la realtà non può essere abbandonata. La realtà va salvata.
Si è parlato di realtà in gioco; forse, dovremmo adoperarci per portare le potenzialità del gioco nella realtà.
Il pomeriggio ha visto, invece, come ospiti, due donne: determinate e senza paura.
Nella prima metà del pomeriggio, abbiamo avuto l’occasione di confrontarci con Gabriola Chetta, presidente della “Cooperativa sociale Onlus Ippocampo”, con sede a Vimercate.
Con il nome Ippocampo, oltre a voler richiamare l’immagine del cavalluccio marino – e quindi la bellezza della diversità in natura -, nonché la creatura mitologica greca, si è voluto richiamare quella parte del cervello adibita all’apprendimento.
L’associazione di Gabriola, infatti, opera proprio in questo ambito; e precisamente si occupa delle diverse strategie di apprendimento (Dsapp), ossia di quelle tecniche approntate, studiate e ricercate per facilitare e favorire l’apprendimento di ragazzi e persone con dislessia, discalculia, disortografia e via dicendo.
Nella vita di Gabriola, la curiosità in questo campo, è nata circa 8 anni fa, quando ha scoperto la dislessia della figlia. Ha iniziato, così, a informarsi, a chiedere e a voler andare oltre quelli che sono i riscontri e le ricerche di natura esclusivamente medica. Ha cercato qualcuno che potesse parlarle di com’è e come funziona la mente di una persona dislessica.
Il primo passo da compiere in questo lavoro, secondo la nostra ospite, è quello di far acquisire alle persone con DSA (Disturbi specifici dell’apprendimento), non solo una certificazione in merito a tali “disturbi”, ma anche e soprattutto, una certa consapevolezza e autostima. Una persona che si vede riconosciuta e certificata la propria “peculiarità”, si sente in qualche modo identificata e aiutata; al tempo stesso però, non deve sentirsi “marchiata” o catalogata.
È per sventare questo pericolo che intervengono gli aiuti e i sostegni di persone come Gabriola e la sua Cooperativa: cercare dei metodi e dei percorsi per far crescere l’autostima di queste persone, la consapevolezza di sé e di come i propri limiti non siano nulla a confronto delle proprie qualità. I limiti stessi, talvolta, possono essere trasformati in qualità.
Ecco che il loro sogno è quello di far compiere questo salto di qualità anche a tutte le forme di “difficoltà di apprendimento”: vederle non più come un problema, ma come un’alternativa di apprendimento; non come una difficoltà, ma come “un’opportunità” che permette loro di sviluppare maggiormente altre doti.
Ciò di cui ci si rende conto, infatti, è che ad essere sempre sottolineate sono le difficoltà di queste persone; nessuno parla, invece, delle loro potenzialità.
In queste persone ci sono, infatti, qualità che trovano terreno fertile, più che in altre: la creatività, la visione olistica, lo sviluppo del pensiero laterale, ma anche una velocità di pensiero visivo, per citarne alcune.
Quello che Gabriola ci ha trasmesso è che ogni aspetto della vita, seppur difficile o diverso, cela sempre il suo lato positivo e sorprendente. Ciò che conta è permettere a questo lato di emergere.
Gabriola Chetta
La seconda ospite della giornata è stata Sheila Barone, anche lei masterizzata nel panorama Lecco 100, qualche anno fa.
Sheila è stata un’atleta agonista nel salto triplo. Un percorso che, sicuramente, ha influito, rafforzandole, sulla sua determinazione, grinta e capacità di non abbattersi davanti agli ostacoli.
Una ragazza che ha fatto un grande salto in lungo anche nella sua carriera lavorativa.
Sheila Barone
Dopo aver lavorato per qualche anno in Samsung, oggi Sheila si trova a gestire per conto di Huawei, i rapporti con Vodafone e la sua clientela.
Abbiamo avuto occasione di ascoltare il modo in cui si lavora in queste società; abbiamo visionato come vengono preparati i cartelloni pubblicitari e come la tipologia del prodotto, la qualità, la categoria di destinazione, il prezzo e il valore del prodotto finale, siano in qualche modo apprendibili dal livello qualitativo pubblicitario. La qualità della grafica, della carta utilizzata, le dimensioni della pubblicità, gli investimenti effettuati, testimoniano se si tratta di un prodotto top di gamma, o di un prodotto più commerciale e ad uso comune.
Oltre ad una visione del lavoro, nella sua parte pratica, quello che ha colpito, nella testimonianza di Sheila, è come – pur parlando di due società, entrambe operanti nel campo della telefonia -, la cultura lavorativa di chi presiede queste società, muti sotto alcuni aspetti di politica e visioni interne.
Oltre al fatto che Samsung è una società sudcoreana quotata in Borsa, mentre Huawei è una società cinese, che possiamo definire “familiare” – non quotata.
Quello che alla fine di questa giornata aggiungiamo al nostro bagaglio culturale e sociale – dal gioco, alle testimonianze delle due ospiti – è che ogni situazione deve essere valutata a 360 gradi. Ogni persona, ogni racconto e ogni realtà possono apparire in un modo, ma noi non dobbiamo perdere la curiosità di andare oltre; perché “oltre” possiamo scoprire verità a cui nemmeno la nostra fantasia sarebbe stata in grado di accedere.
Olivia M.S. Corbetta