La mattina di sabato 8 maggio ha visto l’intervento di Angelo Cortesi, a noi già noto grazie ai suoi contributi delle precedenti giornate di Master. L’argomento da lui esposto è la responsabilità civile e sociale d’impresa. Ritengo sia un tema tanto essenziale oggi quanto profondamente delicato.
Inizierei condividendo una frase che credo ben si adatti con quanto ho potuto apprendere: “Le tue convinzioni diventano i tuoi pensieri, i tuoi pensieri diventano le tue parole, le tue parole diventano i tuoi comportamenti, i tuoi comportamenti diventano le tue abitudini, le tue abitudini diventano i tuoi valori, i tuoi valori diventano il tuo destino.” (Mahatma Gandhi).
L’intervento si è aperto con una domanda-provocazione: cos’è unasocietà responsabile? Il cammino fatto durante la lezione ci ha portato a rispondere al quesito affermando che si tratti di un’impresa in grado di farsi di rispondere alle conseguenze delle proprie azioni (dal latino “responsus”, rispondere) e capace di farsi carico di ciò che rappresenta per se stessa e per tutto ciò che la circonda (dal latino “res-ponsus”, il peso della cosa). Questo concetto corrisponde con l’idea di fabbrica civile e responsabile elaborata da Adriano Olivetti: un’azienda dove c’è giustizia, dove è presente il progresso, dove convivono e sono interdipendenti tra loro bellezza, amore, carità e tolleranza, un’azienda etica ed estetica. Purtroppo questa visione di responsabilità civile e sociale d’impresa si trova nettamente in contrato con il pensiero comune della maggioranza delle aziende, in particolar modo multinazionali, presenti e diffuse oggigiorno in tutto il mondo. Queste si fondano sull’idea neoliberalista per la quale il principio cardine per un’impresa sia rappresentato interamente ed unicamente dal business. Il mercato è totalmente privo di una regolamentazione in quanto si ritiene essere in grado di autoregolarsi e la massimizzazione del profitto è ciò a cui si tende. Scontato sottolineare che un mercato senza regole favorisce comportamenti scorretti e totalmente irresponsabili: ne sono la prova i numerosi effetti disastrosi in cui sono incappate numerose aziende come Nestlè , Deutsch Bank o Nike.
Ad accentuare queste crisi si è inserito anche il progredire della globalizzazione, processo positivo per alcuni aspetti ma decisamente disastroso per altri. Frutto di scelte politiche e non naturali, la globalizzazione è partita da basi ed idee con connotazioni positive per finire a rappresentare, attraverso delocalizzazione e standardizzazione di prodotti, una realtà ancora più svantaggiata per le classi sociali che avrebbero dovuto trarne beneficio e intrinsecamente ricca di disuguaglianze. Proprio in questo contesto di incertezza, per non dire mancanza, di valori etici e di responsabilità, si fa avanti il concetto di responsabilità sociale d’impresa. Questo inizia a prendere forma a partire dal 1932 con Berle quando si scinde l’idea di proprietà da quella di management. L’impresa viene vista come contenitore di bisogni e necessità di vari soggetti (stakeholders), come una realtà in cui sono presenti norme etiche volontarie ed universali e come un connubio e integrazione di questioni sociali, ambientali, etiche, temi relativi a diritti umani e alle richieste dei vari clienti.
Arrivati a questo punto ci è stato chiesto perché un’impresa dovrebbe diventare responsabile? Le motivazioni essenziali sono due, perché le esternalità che si verrebbero a creare in caso di non responsabilità sono essenzialmente negative (vedi distruzione ambiente e comunità, creazione diseguaglianze, estraniazione della democrazia) e perché questo rappresenterebbe un moltiplicatore di benefici sia per le imprese stesse e sia per ambiente ed il contesto in cui operano. Viene da chiedersi ora la motivazione per la quale poche, rarissime, azienda abbiano intrapreso questo percorso verso la responsabilità sociale e civile d’impresa. Innanzitutto perché costa, in termini economici, di tempo e di impegno ed in secondo luogo perché ad oggi non esiste una cultura della responsabilità condivisa in grado di formare imprenditori ed imprenditrici del futuro. Il cammino è da poco iniziato e pare una montagna difficile da scalare; tuttavia alcune aziende si stanno muovendo verso questa direzione a piccoli ma importanti passi. Ci auguriamo che questi rappresentino le goccioline fondamentali ed essenziali per andare a creare un oceano.
Venerdì mattina abbiamo affrontato, con Alessio Sperlinga, la tematica del gioco.
Si è parlato, in particolare, della “realtà in gioco”; di come sia possibile simulare la nostra realtà in un gioco. Una realtà che per molti è più avvincente e coinvolgente della realtà empirica.
Facciamo, però, un passo indietro. Quando si parla di gioco, si parla non solo di sport o giochi in scatola, ma anche, appunto, di giochi che riproducono la realtà in dimensione virtuale. Giochi che ci proiettano in uno spazio parallelo e che chiamiamo giochi online o videogames.
Quello che subito è stato sottolineato è la diffidenza e la scarsa considerazione che molti hanno nei confronti di questi giochi.
Perché allo sport viene dato un valore e un’importanza che i giochi e i videogames non ricevono?
Perché lo sport e le nostre capacità e formazioni sportive vengono citate nei nostri curricula, mentre nessuno scriverebbe che gioca ai videogames?
È interessante focalizzare l’attenzione sul verbo “giocare” e notare la sua diversa valenza, a seconda di come venga utilizzato: se dicessimo, ad esempio, “gioco a tennis”, l’enfasi si sposterebbe sulla parola “tennis”, attribuendo alla frase e al gioco stesso una certa aurea; ma, se dicessimo “gioco a Candy Crush”, l’attenzione, quasi sicuramente, si soffermerebbe solo sul verbo “gioco”, in un’accezione quasi blanda.
Di per sé, nelle due frasi cambia la tipologia di gioco, ma l’intento, la realtà di ciò che stiamo facendo, l’attività che svolgiamo, ruotano sempre attorno al concetto del “giocare”.
Perché, dunque, in un caso “giocare” risulta serio e apprezzabile, mentre nell’altro caso risulta quasi frivolo e secondario? Insomma, concetti simili, ma reazioni diverse?
Questo ci fa capire come, evidentemente, il problema risieda nel fortepregiudizio che abbiamo sui giochi. Pregiudizi che creano una chiusura mentale nella visione e percezione comune della società su questa tematica.
Chi gioca, chi ama giocare e chi vive queste realtà virtuali, spesso non viene compreso, viene visto come un alieno che vive rinchiuso nella sua camera, davanti a uno schermo, estraniandosi da tutto e da tutti.
Ogni situazione deve, però, essere inquadrata e analizzata da entrambi i lati della medaglia.
Così, per andare oltre la visione comune e per cercare di capire cosa succede “dall’altra parte”, abbiamo citato la nota scrittrice Jane McGonigal. Questa donna scrive e racconta la realtà in gioco e come il gioco presenti grandi potenzialità che la realtà stessa non conosce o non può offrire.
È emerso, in primis, che i giocatori abbandonano la realtà per mancanza di soddisfazioni, di una vita piena o di una comunità stimolante. Le persone trovano rifugio e sfogo in questa sorta di mondo parallelo, dove tutto il reale può essere riprodotto, vissuto e condiviso. Un mondo in cui cresce la motivazione di fare, di perseguire, perché nel gioco esiste sempre un obiettivo ed è sempre raggiungibile.
Nei giochi siamo stimolati a superare ostacoli non necessari, ma lo facciamo perché non esiste la paura del fallimento. Fallire, deludere, rischiare senza certezze sono, invece, delle costanti nella vita reale.
Queste affermazioni sembrano già dimostrare che qualcosa nella realtà non funziona.
Perché tante, troppe persone tentano ogni giorno la fuga dalla realtà empirica? Perché tutte queste insoddisfazioni? Forse la società, col tempo, pone troppi obiettivi, troppe aspettative; ma il più delle volte, questi obiettivi sono irraggiungibili, impossibili. La nostra mente non è disposta a disperdere energie in qualcosa che richiede sforzi, per lo più, non ricambiati. Questo stato mentale e questo ostacolo, talvolta, generano, infatti, depressione.
Il gioco sembra non conoscere questa sensazione; anzi, pare che il gioco generi, piuttosto, un’attivazione emozionale di grado positivo.
Con i giochi tendiamo a concentrare le nostre energie su qualcosa in cui siamo bravi e che ci piace. Questo genera ottimismo e determinazione in ciò che facciamo. Un ottimismo che spesso non troviamo nel nostro lavoro o nei nostri studi; forse, perché non sempre ci troviamo a fare ciò che avremmo voluto, o magari ci troviamo a farlo, ma in un contesto poco stimolante, con persone attorno che non ci motivano e non ci gratificano. Da ciò può derivare una situazione di bornout, di stress e logoramento.
Stati emotivi che non appartengono alla realtà del gioco, anche perché qui possiamo decidere noi quando iniziare e quando fermarci. Possiamo decidere i nostri tempi; e al tempo stesso impedirci di cadere nella dipendenza.
Si crea dunque una sorta di mondo “quasi perfetto” in cui, oltremodo, si instaurano e tessono reti sociali e parasociali molto solide. Rapporti e legami interpersonali che nel mondo reale, invece, si sono fatti sempre più deboli.
Un mondo, quello del gioco, che sembra conferire a tutto ciò che si fa e si crea un aspetto quasi epico. L’eroicità dei nostri gesti, nella vita reale, sembra un altro step sconosciuto. Tutto è omologato, tutti sembrano fare le stesse cose, tutti vogliono le stesse cose; e ogni gesto, anche il più profondo, sembra non assumere più valore.
Da questo quadro, appare chiaro, almeno per Jane McGonigal, chi sia il vincitore della partita tra realtà e gioco.
Alla luce di tutte queste scoperte e constatazioni, in qualche modo sorprendenti, dovremmo quindi domandarci “cosa non va là fuori?”.
Dovremmo sì, cercare soluzioni alternative in queste realtà parallele, ma, forse, prendere anche spunto da tutte le considerazioni viste e cercare di riparare e ritrovare fiducia e speranza nel genere umano e nel mondo empirico.
Il gioco può essere una valida alternativa, ma la realtà non può essere abbandonata. La realtà va salvata.
Si è parlato di realtà in gioco; forse, dovremmo adoperarci per portare le potenzialità del gioco nella realtà.
Il pomeriggio ha visto, invece, come ospiti, due donne: determinate e senza paura.
Nella prima metà del pomeriggio, abbiamo avuto l’occasione di confrontarci con Gabriola Chetta, presidente della “Cooperativa sociale Onlus Ippocampo”, con sede a Vimercate.
Con il nome Ippocampo, oltre a voler richiamare l’immagine del cavalluccio marino – e quindi la bellezza della diversità in natura -, nonché la creatura mitologica greca, si è voluto richiamare quella parte del cervello adibita all’apprendimento.
L’associazione di Gabriola, infatti, opera proprio in questo ambito; e precisamente si occupa delle diverse strategie di apprendimento (Dsapp), ossia di quelle tecniche approntate, studiate e ricercate per facilitare e favorire l’apprendimento di ragazzi e persone con dislessia, discalculia, disortografia e via dicendo.
Nella vita di Gabriola, la curiosità in questo campo, è nata circa 8 anni fa, quando ha scoperto la dislessia della figlia. Ha iniziato, così, a informarsi, a chiedere e a voler andare oltre quelli che sono i riscontri e le ricerche di natura esclusivamente medica. Ha cercato qualcuno che potesse parlarle di com’è e come funziona la mente di una persona dislessica.
Il primo passo da compiere in questo lavoro, secondo la nostra ospite, è quello di far acquisire alle persone con DSA (Disturbi specifici dell’apprendimento), non solo una certificazione in merito a tali “disturbi”, ma anche e soprattutto, una certa consapevolezza e autostima. Una persona che si vede riconosciuta e certificata la propria “peculiarità”, si sente in qualche modo identificata e aiutata; al tempo stesso però, non deve sentirsi “marchiata” o catalogata.
È per sventare questo pericolo che intervengono gli aiuti e i sostegni di persone come Gabriola e la sua Cooperativa: cercare dei metodi e dei percorsi per far crescere l’autostima di queste persone, la consapevolezza di sé e di come i propri limiti non siano nulla a confronto delle proprie qualità. I limiti stessi, talvolta, possono essere trasformati in qualità.
Ecco che il loro sogno è quello di far compiere questo salto di qualità anche a tutte le forme di “difficoltà di apprendimento”: vederle non più come un problema, ma come un’alternativa di apprendimento; non come una difficoltà, ma come “un’opportunità” che permette loro di sviluppare maggiormente altre doti.
Ciò di cui ci si rende conto, infatti, è che ad essere sempre sottolineate sono le difficoltà di queste persone; nessuno parla, invece, delle loro potenzialità.
In queste persone ci sono, infatti, qualità che trovano terreno fertile, più che in altre: la creatività, la visione olistica, lo sviluppo del pensiero laterale, ma anche una velocità di pensiero visivo, per citarne alcune.
Quello che Gabriola ci ha trasmesso è che ogni aspetto della vita, seppur difficile o diverso, cela sempre il suo lato positivo e sorprendente. Ciò che conta è permettere a questo lato di emergere.
Gabriola Chetta
La seconda ospite della giornata è stata Sheila Barone, anche lei masterizzata nel panorama Lecco 100, qualche anno fa.
Sheila è stata un’atleta agonista nel salto triplo. Un percorso che, sicuramente, ha influito, rafforzandole, sulla sua determinazione, grinta e capacità di non abbattersi davanti agli ostacoli.
Una ragazza che ha fatto un grande salto in lungo anche nella sua carriera lavorativa.
Sheila Barone
Dopo aver lavorato per qualche anno in Samsung, oggi Sheila si trova a gestire per conto di Huawei, i rapporti con Vodafone e la sua clientela.
Abbiamo avuto occasione di ascoltare il modo in cui si lavora in queste società; abbiamo visionato come vengono preparati i cartelloni pubblicitari e come la tipologia del prodotto, la qualità, la categoria di destinazione, il prezzo e il valore del prodotto finale, siano in qualche modo apprendibili dal livello qualitativo pubblicitario. La qualità della grafica, della carta utilizzata, le dimensioni della pubblicità, gli investimenti effettuati, testimoniano se si tratta di un prodotto top di gamma, o di un prodotto più commerciale e ad uso comune.
Oltre ad una visione del lavoro, nella sua parte pratica, quello che ha colpito, nella testimonianza di Sheila, è come – pur parlando di due società, entrambe operanti nel campo della telefonia -, la cultura lavorativa di chi presiede queste società, muti sotto alcuni aspetti di politica e visioni interne.
Oltre al fatto che Samsung è una società sudcoreana quotata in Borsa, mentre Huawei è una società cinese, che possiamo definire “familiare” – non quotata.
Quello che alla fine di questa giornata aggiungiamo al nostro bagaglio culturale e sociale – dal gioco, alle testimonianze delle due ospiti – è che ogni situazione deve essere valutata a 360 gradi. Ogni persona, ogni racconto e ogni realtà possono apparire in un modo, ma noi non dobbiamo perdere la curiosità di andare oltre; perché “oltre” possiamo scoprire verità a cui nemmeno la nostra fantasia sarebbe stata in grado di accedere.
La mattinata di sabato 24 aprile è stata all’insegna della paura. Il docente Alessio Sperlinga ha proposto una lezione sulla gestione della paura.
Muovendo dall’assunto che la natura non fa nulla di inutile e che quindi anche la paura non sia una emozione insensata bensì abbia uno scopo e può essere anche sfruttata come una strategia di sopravvivenza.
Successivamente è stato affrontato il tema della paura “nella mente” dando particolare enfasi alle fasi del lutto.
L’incontro è terminato con l’analisi della negoziazione con la paura in quanto non essendo possibile non avere paura è necessario saperla gestire e per aiutare in ciò è necessario adottare delle strategie.
La giornata del Master di venerdì 23 aprile si è aperta con il secondo incontro con Laura Suma, district sales consultant di Manpower group.
La mattinata è stata incentrata sulla preparazione per un colloquio di lavoro guidati dai consigli della esperta Sig.ra Suma.
L’incontro si è mosso da un questionario sul mondo del lavoro sfatando falsi miti e credenze. Successivamente sono stati passati in disamina i canali per scovare offerte di lavoro come su Linkedin, gli annunci sui giornali etc. Poi è stato esaminato il processo di selezione dedicando particolare attenzione ad un particolare momento dell’iter di selezione ovvero l’assessment di gruppo. L’argomento è stato fonte di grande dialogo grazie anche alle esperienze vissute da qualche alunno.
L’incontro è poi proseguito parlando dell’atteggiamento da tenere nei confronti del selezionatore con degli utili spunti di riflessione e “tips” da tenere a mente come, ad esempio, ricordarsi sempre che il selezionatore non è un amico anche se si può porre con un atteggiamento tale da farlo sembrare.
L’incontro è terminato con delle brevi “simulazioni” di domande tipiche di un colloquio di lavoro.
La lezione è stata particolarmente interattiva e coinvolgente con una elevata partecipazione degli studenti.
Il pomeriggio del medesimo giorno sono intervenuti 3 personaggi di rilievo. Il primo ad intervenire è stato Franco Paltani, AD di TechnoTrade Group.
Techno Trade Group è una aggregazione di aziende su tutto il territorio italiano. Lo scopo dell’aggregazione è quello di fornire servizi e sistemi atti a migliorare margini e vendite delle aziende che ne fanno parte. Con l’orgoglio di poter far crescere il Made in Italy. Il Sig. Paltani ha portato uno speech riguardante il mondo del lavoro e in particolare sul processo di selezione, enfatizzando particolarmente il concetto della necessità di differenziarsi per emergere nella “marea” di curriculum che le aziende ricevono. Ha rimarcato particolarmente l’importanza dello studio inteso come preparazione all’incontro con l’azienda per la quale si sta applicando. Particolare enfasi è stata anche data alla innovazione e all’apporto di valore che un candidato dovrebbe portare all’azienda per poter emergere tra i candidati e riuscire a farsi selezionare.
Il secondo ospite del pomeriggio è stato Simone Re, ex allievo del master Lecco 100 e co-owner e manager dell’azienda Digitech Innovation srl.
Ha raccontato la sua esperienza nell’azienda di famiglia e di come sia stato in grado di reinventarsi passando da un profilo informatico applicativo ad uno manageriale.
Il terzo ospite è stata Katia Sala, ex direttrice di Teleunica.
La Sig.ra Sala ha raccontato con passione ed emozione il suo percorso giornalistico raccontando le differenze tra giornalismo locale e giornalismo nazionale con i suoi pro e contro. Infine, la Sig.ra Sala ha raccontato della sua voglia di cambiamento che l’ha spinta a lasciare la direzione di Teleunica per intraprendere la sua nuova attività, sempre nel campo della comunicazione.
Come ogni incontro con gli imprenditori, il pomeriggio ha permesso di cogliere numerosi spunti di riflessione.
Luca Seveso
il patrimonio imprenditoriale per fare impresa in un mercato che seleziona
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