Tutti gli articoli di Alessio Sperlinga

Preparazione

Virginia Vidaura, istruttrice del Corpo, con le mani nelle tasche della tuta, ci osserva con calma speculativa. Primo giorno di addestramento. “Poiché è logisticamente impossibile aspettarsi qualsiasi cosa, ci ha detto in modo neutro, vi insegneremo a non aspettarvi nulla. In questo modo, sarete pronti a tutto”. (Broken angels – Richard Morgan)

Gli esperti stimano che la preparazione è il 90% del successo.

Questo apre a due domande:

  1. su cosa e come mi devo preparare?
  2. il 10% che avanza da cosa è fatto?

L’imprevisto

https://drive.google.com/file/d/14aZtwV8TVuc46k7oVvrUMyCtI3Pos6ml/view?usp=share_link

Partiamo dalla seconda, è più semplice. Il 10% è rappresentato dagli imprevisti, cioè qualcosa che non solo sfugge al nostro controllo, ma che dobbiamo affrontare.

Pensate alla pandemia, aerei a terra, scuole chiuse, turismo bloccato e ognuno di noi può aggiungere qualcosa.

Un formatore mi faceva un esempio: “Hai trovato un cliente e lo devi incontrare. Ti vesti bene, un pizzico di dopobarba e ti presenti puntuale all’appuntamento. Non vi siete ancora visti in presenza, ma nelle fasi precedenti è andato tutto bene, l’incontro dovrebbe essere solo una formalità per firmare il contratto e vedere l’azienda. Eppure, dopo pochi minuti ti rendi conto che c’è qualcosa che non va, e il cliente, improvvisamente, con una scusa, sospende la trattativa. Il formatore concludeva dicendo: Lui non sa perché gli sei stato così antipatico a fior di pelle. Tu men che meno. Il problema è che tu ti sei messo lo stesso dopobarba dell’amante della moglie del tuo cliente.”

Una volta sono andato ad una riunione ed eravamo in due, finché abbiamo scoperto che avevamo sbagliato sala, rovinando completamente la comunicazione.

Un’altra volta ho trovato la strada chiusa, un’altra volta mi ha fermato e multato un vigile.
Preparazione in questo caso vuol dire due cose:
1) parti un’ora prima
2) prevedi un fondo per gli imprevisti economici di viaggio.

Perché c’è sempre un imprevisto.

Il ruolo e la motivazione

Mentre sto scrivendo questo articolo dietro di me ci sono sei giovani che stanno iniziando una nuova campagna al gioco di ruolo Dungeon and Dragons. Sono esattamente due ore che il master sta raccontando il contesto, le regole, cosa possono fare i singoli ruoli e quali azioni possono essere svolte in gruppo e con che esito. Il master ha l’esperienza di qualche anno di campagne e la preparazione è veramente impegnativa. Questo tipo di preparazione predispone al project management e secondo me va messa a curriculum perché richiede l’abitudine alle diverse culture dei ruoli dei partecipanti e ad immaginare situazioni possibili senza mai perdere di vista lo stato della campagna e l’obiettivo.

Durante il master Lecco 100 abbiamo diversi altri testimonial ed insegnanti che rendono molto bene l’idea di cosa sia la preparazione.

Michele Motta nel 2009 inizia il suo servizio come volontario nella protezione civile di Valgreghentino. Il percorso lo ha portato oggi ad essere vicepresidente del gruppo di Merate. Il suo contributo nell’associazione lo ha portato ad essere presente in diverse occasioni, tra cui il terremoto dell’Aquila nel 2009. Tutte le descrizioni di Michele Motta hanno rappresentato il fatto che la quasi totalità dell’attività della Protezione civile è dedicata alla preparazione. Viene mantenuta sempre attiva, anche in periodi lavorativi e ricalca le professionalità personali di ognuno dei volontari. Un idraulico interverrà sugli impianti, un autista guiderà i mezzi, un cuoco cucinerà. Potete trovare nel blog diverse testimonianze dei suoi interventi https://www.lecco100.it/index.php/2019/06/03/lezione-del-5-aprile-gli-imprenditori-si-raccontano/.

Domenico Esposito, responsabile della formazione del personale commerciale e di vendita della Stanley Black & Decker. è un formatore esperto e con esperienza internazionale. Ha lavorato in presenza, in remoto, tramite sketch video registrati, in diretta su televendite, con italiani e con colleghi internazionali in inglese. Fra i vari articoli sul blog trovate i suoi suggerimenti: https://www.lecco100.it/index.php/2021/03/09/venerdi-26-febbraio-la-conciliazione-vita-lavoro-il-public-speaking/.

La motivazione è la parte psicologica della preparazione. Devi avere chiaro qual è il tuo ruolo e quali sono le responsabilità che attiene. Qual è la tua missione e chi vuoi essere. Tu puoi agire anche senza avere un particolare obiettivo, solo per abitudine o necessità. Farlo consapevolmente e con obiettivi chiari migliora la qualità della vita.

Una metafora per spiegare questo punto è la storia dei tre spaccapietre che potete trovare in molte versioni diverse tramite Google, e fa così:

“Un pellegrino aveva fatto un voto di raggiungere a piedi un lontano santuario. Nel percorso, si trovò a passare per una strada dove qua e là degli uomini scalpellavano grossi frammenti di roccia per ricavare blocchi di pietra da costruzione cubiformi. Il pellegrino si avvicinò al primo degli uomini e chiese: «Che cosa fai?». «mi sto ammazzando di fatica scalpellando delle pietre» rispose l’uomo. Il pellegrino non disse nulla e riprese il cammino. Chiese ad un’altro spaccapietre, stanco e impolverato come il primo. «Che cosa fai?» chiese anche a lui il pellegrino. «Lavoro da mattino a sera per mantenere mia moglie e i miei bambini» rispose l’uomo. In silenzio, il pellegrino riprese a camminare. Giunse quasi in cima alla collina. Là c’era un terzo spaccapietre, provato come gli altri. «Che cosa fai?» chiese il pellegrino. rispose l’uomo, «Sto contribuendo a costruire una cattedrale». E con il braccio indicò la valle dove si stava innalzando una grande costruzione, puntata verso il cielo.”

Quando parliamo ai giovani nelle aule del master una delle prime cose che facciamo è un percorso per definire chi vuoi essere e cosa vuoi fare. In 11 anni di master abbiamo avuto allievi che frequentando il master hanno capito che quello che avevano studiato e quello che volevano fare erano due cose diverse. Abbiamo avuto allievi che hanno fatto il master e poi hanno preso un anno sabbatico, altri che hanno cambiato radicalmente i loro modelli di comportamento. Come dicevano i filosofi prima di Socrate “conosci te stesso” è la prima regola a cui tendere, vedi l’articolo sull’Ikigai.La condizione umana e la saggezza. Scopriamo l’Ikigai.

La preparazione tecnica

La preparazione tecnica è tutto quello che devi sapere per fare bene il tuo lavoro.

Conoscere il cliente o i colleghi per cui lavori, la materia specifica su cui lavori, il contesto specifico in cui agirai, gli strumenti che ti permettono di farlo, i metodi e le tecniche che ti permettono di raggiungere i risultati.

Se fai un lavoro che ti piace, acquisire il sapere necessario a farlo non è una sofferenza.

Anche questo è importante perché il ritmo attuale del cambiamento sia nelle scienze che riguardano chimica e fisica, dal saldatore al panettiere al contadino, sia in ambito tecnologico e teorico è veloce per un essere umano, e richiede un costante sforzo per l’aggiornamento.

Io ho fatto il programmatore e l’analista per vent’anni e ho dovuto imparare a programmare con paradigmi diversi: interfaccia a carattere su singolo pc, interfaccia grafica in ambiente Client-Server, la programmazione web, database sql e NOsql e GraphDB; infine linguaggi generalisti come R e Python per il data science. Un lavoro di grande soddisfazione e un ritmo che ti consuma. Ci sono attività meno veloci e il cambiamento è una costante in ogni settore.

Un vero professionista si adatta a tutto e fa delle scelte chiare. Si prepara e poi agisce. Fallisce, cade e si rialza e risponde dei suoi comportamenti.

Il terzo elemento

Il terzo elemento è il comportamento, l’atteggiamento verso chi incontri.

Se hai un obiettivo quando incontri qualcuno è tutto più facile, perché il tuo comportamento è guidato dalle tue intenzioni, non dalle emozioni del momento. Riuscirai a gestire anche un cliente particolarmente negativo, perchè come diceva il già citato imperatore stoico Marco Aurelio:” Al mattino comincia col dire a te stesso: incontrerò un indiscreto, un ingrato, un prepotente, un impostore, un invidioso, un individualista.”

Se riuscirai a gestire il cliente difficile con tutti gli altri farai anche meglio.

Sicuramente litigare con un cliente o un collaboratore non produce un risultato positivo per il gruppo.

In pratica stiamo parlando di intelligenza emotiva, un percorso di consapevolezza sulle proprie emozioni che abbiamo già descritto in questo articolo:

Insistere e migliorare

Ci sono svariati elementi che ci possono portare al successo e per i quali non è necessario essere dei fuoriclasse:

  1. comportamenti sociali adatti al contesto
  2. carisma personale
  3. l’esperienza, diventare un esperto
  4. la determinazione, insistere
  5. un pizzico di fortuna

Riuscire ad individuare cosa le persone apprezzano delle nostre capacità ci aiuterà a velocizzare i nostri progressi. Attenzione: Realizzare se stessi e avere successo sono due cose diverse. Cercare un equilibrio fra le due vuol dire accettare la vita e noi stessi per quello che siamo. Uno dei nostri allievi lavora con soddisfazione come ingegnere e nel contempo fa volontariato come clown nei reparti pediatrici degli ospedali.

Vieni al master Lecco 100 e impara a conoscerti meglio.


Vuoi partecipare al master nel 2023?

come iscriversi: https://www.lecco100.it/index.php/2022/09/08/vuoi-partecipare-al-master-2023/

il programma: https://www.lecco100.it/index.php/2022/09/07/stiamo-progettando-il-master-del-2023

Riunioni utili

“Dio è ovunque, ma è sempre in riunione.” – Flavio Oreglio

Carl Gustav Jung e la terapia di gruppo

I telefilm americani sono pieni di personaggi che frequentano i gruppi di alcolisti anonimi e derivano dall’idea originale di poter dare accesso a persone senza mezzi o che vogliono mantenere l’anonimato a gruppi di cura, in modo semplice e in qualsiasi spazio accessibile.

Cosa c’entra con le riunioni? Vediamo.

Perché fare delle riunioni?

Il motivo per cui le riunioni funzionano è ben evidenziato dallo scambio epistolare che Jung intrattenne con un collega all’inizio del 1955 (https://www.rivistapsicologianalitica.it/v2/PDF/1-2-1970-tecnica/I-2-1970_cap6.pdf )

come medico, io considero tutti i disturbi psichici, siano essi di tipo nevrotico o psicotico, come malattie dell’individuo; ritengo che il paziente debba essere trattato di conseguenza. L’individuo può venir trattato in gruppo, solamente se ne fa parte. Se è così, questo dovrebbe essere un grande aiuto, dal momento che, lasciandosi sommergere nel gruppo, egli sfugge in un certo senso a sé stesso. L’appartenenza ad un gruppo aumenta la sensazione di sicurezza, e diminuisce il senso di responsabilità. Una volta, mi venni a trovare in una fitta nebbia, mentre stavo attraversando un pericoloso ghiacciaio, insieme ad una compagnia di soldati. La situazione era così pericolosa che ognuno dovette fermarsi dove si trovava. Eppure, non vi fu traccia di panico, ma piuttosto lo stato d’animo di una festa privata! Se si fossero trovate là solamente una o due persone, probabilmente non si sarebbero neanche rese conto del pericolo della situazione. In quella circostanza, comunque, i coraggiosi e gli esperti della compagnia poterono far mostra delle loro qualità. Quelli timidi poterono appoggiarsi alla forza dei loro compagni, e nessuno fece parola riguardo la possibilità di dover improvvisare un accampamento sul ghiaccialo, cosa che avrebbe probabilmente provocato dei congelamenti agli arti, per non parlare poi dei pericoli se si fosse tentato di scalare il ghiacciaio. Questo è tipico dello spirito di gruppo.”

Ho scelto di cominciare così perché di solito quando si propone la formazione sulle modalità professionali con cui svolgere riunioni tutti pensano di sapere già cosa è una riunione e non ne colgono il senso profondo tanto sono abituati a considerarle come se fossero obblighi professionali o riti aziendali.

Quindi in aula nel Master Lecco 100 si procede su come organizzare e gestire una riunione e che tipo di riunioni possiamo proporre a seconda del contesto professionale. Cominciamo dicendo tre cose:

  1. le riunioni funzionano perché sono una dichiarazione di appartenenza a un gruppo e questo risponde a un bisogno della nostra specie.
  2. le riunioni sono uno strumento, non un processo. Quindi devono essere gestite con regole precise e senza “varie ed eventuali”.
  3. in tutte le riunioni il fattore tempo è il vincolo principale.

“La differenza tra un ubriaco e un alcolista è che l’ubriaco non deve partecipare a tutte quelle riunioni.” – Arthur Lewis

In azienda – Le riunioni per decidere

Le riunioni più diffuse nelle aziende sono dei Work in progress (lavori in corso), con una cadenza fissa, di solito settimanale in cui ci si incontra per fare il punto su progetti e si prendono decisioni per i passi successivi. Differiscono dai SAL (stato avanzamento lavori) per il numero di partecipanti e per l’urgenza. Mantenere il focus e procedere non vuol dire che la riunione debba essere svolta se non ci sono sufficienti motivi.

Qui sotto una mappa riassuntiva di una proposta su come organizzare una riunione

Un altro elemento fondamentale è che il consumo di tempo implica che alla riunione ci devono essere solo le persone necessarie e devono essere preparate. Spedire un ordine del giorno aiuta tutti a sapere cosa aspettarsi, a rispondere e ad apprezzare chi convoca la riunione perché sul lavoro essere prevedibili rassicura i colleghi e ti fa percepire come affidabile.

Chi convoca la riunione ha il dovere di moderarla e di assicurarsi di svolgere tutto quello che serve a raggiungere il risultato atteso nel tempo stimato, vedi mappa riassuntiva:

Verbalizzare è necessario per non perdere la memoria di cosa è stato deciso e quando. I tempi certi di una riunione vogliono dire che se deve durare al massimo un’ora dopo un’ora si smette o si fissa un’altra riunione.

Nella mia esperienza di molte riunioni con gruppi di lavoro, i migliori sono gli imprenditori:

  • sono preparati
  • puntano all’essenziale
  • dopo un’ora se ne vanno

Di solito durante la riunione teniamo traccia di dialoghi e decisioni su una mappa mentale che diventa il verbale e viene spedito nell’ora successiva ai partecipanti.

Se partecipiamo ad una riunione convocata da qualcun altro ecco i suggerimenti:

Un allievo di Lecco 100 che aveva avuto un ristorante in società con altre persone, dopo aver partecipato alla lezione era letteralmente affranto, quasi piangeva. non dimenticherò mai cosa disse: “Tu avrai detto 50 cose su come fare una riunione. Noi abbiamo fatto un sacco di riunioni e non abbiamo mai fatto una delle cose che hai detto, neanche una”. Si era reso improvvisamente conto di quanto erano impreparati.

La variabile remota

Negli anni della pandemia ci siamo abituati a fare riunioni di tutti i tipi in remoto, e uno dei maestri della teoria della comunicazione moderna, Giorgio Nardone, ha scritto un libro che richiama ill più famoso “Pragmatica della comunicazione” scritto, fra gli altri, dal suo maestro Paul Watzlawick. Il libro tratta proprio dei limiti e delle opportunità della comunicazione in remoto.

Il prof. Nardone dice che all’inizio era fortemente insicuro nell’uso di strumenti come Zoom, Meet, Teams e si chiedeva come avrebbe potuto svolgere il suo lavoro totalmente basato sulla comunicazione, con il paziente e con gli allievi. Con il passare del tempo si è accorto che riusciva a svolgere lezioni e soprattutto a ottenere risultati anche con le sessioni di terapia online.

Qui una piccola mappa riassuntiva dei concetti che mi hanno colpito durante la lettura:

In azienda – Le riunioni per informare

Stand-up meeting

Nell’ambito tecnico, in particolare per chi scrive software o segue progetti informatici, sono almeno vent’anni che esistono metodi di lavoro pensati per progetti spezzati in piccole parti che durano da una a tre settimane di lavoro e svariati metodi e strumenti che potete trovare su Google cercando “Metodo Agile”. Questo metodo prevede delle riunioni:

  1. giornaliere
  2. in piedi, in cerchio
  3. tutti hanno un minuto per parlare
  4. cosa ho fatto da ieri a oggi, cosa farò da oggi a domani, cosa non riesco a fare

Risultato: tutti sanno tutto e possiamo aiutare chi è in difficoltà

Ogni volta che ne vedo una o ne parlo non posso fare a meno di notare che assomiglia terribilmente a una terapia di gruppo 🙂

Queste riunioni sono strumenti usati insieme alle viste Kanban disponibili nei software per gestire processi. Sono il cuore del modo di lavorare delle piccole e medie aziende software e di molte aziende di produzione che usano i metodi della Lean production. Se volete saperne di più ho scritto un altro articolo sul Kanban, visto che lo insegniamo durante il master Lecco100: Jim Benson, Tonianne DeMariaBerry e il personal kanban

In azienda – Le riunioni per creare

Non molto usate in Italia, ma di grande successo in Asia e in oriente in generale sono le riunioni impostate sul metodo dei “Sei cappelli per pensare” di Edward De Bono. Uno dei più grandi creativi del secolo scorso di cui abbiamo già parlato in un altro articolo: https://www.lecco100.it/index.php/2022/10/13/edward-de-bono-e-il-pensiero-laterale/

La tecnica dei sei cappelli consiste nel permettere ai partecipanti di assumere ruoli diversi, esattamente come a teatro, a seconda del cappello che si mettono in testa. In questo modo è possibile per il moderatore, che indossa il cappello BLU, chiedere ai vari partecipanti di comportarsi e di comunicare come prevede il ruolo del colore del cappello a loro assegnato. Nel mondo orientale così legato a regole gerarchiche è un modo per ottenere il meglio, ovvero far dire ai colleghi cose che non direbbero mai secondo le loro convenzioni sociali. Possiamo farlo anche noi, ad esempio chiedendo a una persona di indole negativa di mettersi il cappello GIALLO e dire due cose da ottimista. Durante la riunione non si esprimono giudizi personali nei confronti di nessuno, si cambia solo cappello.

  • Cappello BIANCO – solo dati, numeri, fatti, informazioni – atteggiamento neutrale
  • Cappello ROSSO – emozioni, sensazioni, intuizioni – atteggiamento passionale
  • Cappello NERO – problemi, rischi, negatività – atteggiamento negativo/alterato
  • Cappello GIALLO – opportunità, aspetti positivi, speranze – atteggiamento positivo
  • Cappello VERDE – nuove idee, creatività, sviluppi possibili – atteggiamento sereno, richiamo alla natura
  • Cappello BLU – pacatezza, controllo, moderazione, supervisione – atteggiamento distaccato

In aula noi una riunione con i sei cappelli prima o poi a facciamo, non appena abbiamo imparato a conoscere i ragazzi dopo un po’ di lezioni.

Cosa ci riserva il futuro?

A riguardo ho scritto un altro articolo che trovate qui sotto. Ci sono le esperienze scolastiche e professionali pratiche che abbiamo fatto negli ultimi anni e le prime conseguenze emerse per il futuro a breve termine.

Ci vedremo alla prossima riunione nel metaverso.


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come iscriversi: https://www.lecco100.it/index.php/2022/09/08/vuoi-partecipare-al-master-2023/

il programma: https://www.lecco100.it/index.php/2022/09/07/stiamo-progettando-il-master-del-2023

Paradossi

«Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo.» vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Paradosso_del_Comma_22

I paradossi ci circondano, noi stessi spesso tentiamo soluzioni paradossali, insistendo a fare cose che ci danneggiano e per me è venuto il momento di parlarvene. Se vi sentirete confusi non vi preoccupate, è così che funziona.

Qui daremo riferimenti teorici e casi reali, per i più semplici, quelli proposti dai greci oltre duemila anni fa, come il paradosso del mentitore, potete trovare degli esempi su Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Paradosso_del_mentitore

Burocrazie quotidiane

Se a qualcuno di voi è capitato di acquistare in Italia un appartamento, di finalizzare una pensione o di usufruire di incentivi di legge, la summa dei problemi burocratici da affrontare è spesso piena di paradossi.

Come dicevo nel caso della burocrazia i paradossi non sono solo giochi di parole, ma hanno tragiche ricadute nella realtà, con danni fisici e psicologici sulle persone che ne sono vittime consapevoli.

Mi ricordi che quando ho fatto il militare, il giorno successivo al mio arrivo nell’amministrazione del Distretto Militare, venne a mancare il tenente colonnello che lo dirigeva. Fra i vari documenti richiesti in quel caso dall’amministrazione ce n’era anche uno che, per ottenere la pensione, doveva essere firmato da lui. Ovviamente i colleghi hanno risolto e la situazione da tragica ha assunto almeno una sfumatura comica.

Un po’ di teoria

Nel master di Lecco 100 incontriamo i paradossi in alcuni momenti, ad esempio quando parliamo di macchine algoritmi e intelligenza artificiale, perché le lingue umane e l’algebra producono i linguaggi di programmazione. I linguaggi di programmazione si portano dietro alcuni limiti, per esempio non si possono scrivere metafore o metonimie e soprattutto è possibile scrivere frasi paradossali. Questo significa che non esiste un linguaggio umano in grado di scrivere qualcosa di sicuramente esatto, o per avvicinarci a Godel potremmo dire coerente e completo.

Ludwig Wittgestein sosteneva che non è possibile descrivere qualcosa in modo atomico, ovvero esattamente, anche se è possibile mostrarlo. Bertrand Russell rispondeva che nonostante i limiti del linguaggio credeva di capire quello che diceva Wittgestein.

Semplicemente siamo destinati a incappare in qualche paradosso, continuamente, e quindi tanto vale saperne qualcosa in più. Le osservazioni di Wittgestein però potrebbero farci sospettare che la verità oggettiva non esiste.

Bertrand Russell a sua volta aveva studiato l’insiemistica proponendola come sistema completo e coerente, finché una mattina si svegliò e formulò una frase che, se la memoria mi assiste, dovrebbe essere: “Se esiste l’insieme degli insiemi che non appartengono a nessun insieme l’insiemistica è incoerente. Se non esiste l’insieme degli insiemi che non appartengono a nessun insieme l’insiemistica è incoerente.”

Prendete fiato cinque minuti con un filmato paradossale e poi torniamo a quello che succede nel mondo reale.

Un altro grande psicologo, Paul Watzlawick metteva l’accento su come le nostre credenze e convinzioni possono generare paradossi, vicoli ciechi che si trasformano in problemi psicologici cronici se ripetuti nel tempo. Ad esempio, raccontava questa storiella:

“Una donna, ricoverata d’urgenza in via provvisoria all’Ospedale Generale di Grosseto in uno stato di schizofrenia acuta, doveva essere trasferita nella clinica psichiatrica della sua città natale, a Napoli. All’arrivo degli infermieri, la paziente era seduta sul letto, completamente vestita, con la borsa già pronta. Alla richiesta di seguire gli infermieri e di entrare nell’ambulanza che la doveva portare a Napoli, la donna dette in escandescenze, diventò belligerante; ebbe quella che si potrebbe definire una crisi di schizofrenia. Dopo un’iniezione calmante, l’ambulanza partì per Napoli, ma all’altezza di Roma, venne fermata e rimandata d’urgenza a Grosseto. C’era stato un errore: la signora era solo la parente di un uomo che era stato operato all’ospedale e che era stata scambiata per la paziente schizofrenica.”

Secondo le convinzioni di tutti quelli che aveva intorno ogni pretesa della donna di non essere pazza era una ulteriore conferma del fatto che lo era, dopo tutto era in un ospedale seduta su un letto.

«Solo gli imbecilli non hanno dubbi» «Ne sei sicuro?» «Non ho alcun dubbio!» – Luciano De Crescenzo – Il dubbio

Torniamo ai tempi nostri. Tenete conto che approfitto dell’esperienza personale per descrivere il tema dei paradossi con esempi comprensibili.

Il piccolo comune e il paradosso della legge

“Le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni”. vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Il_lastrico_dell’inferno

I piccoli comuni non hanno il budget per avere personale tecnico a tempo pieno, quindi risolvono con contratti part-time. Il risultato è che per una pratica edilizia c’è un tecnico part-time due mezze giornate la settimana. Così si producono effetti devastanti:

  • il lavoro di una settimana durerà un mese
  • rallenta il naturale rinnovo della popolazione del paese
  • Si sfavorisce la ristrutturazione dei vecchi immobili rendendo il centro paese un posto dove cambiano solo gli annunci mortuari
  • e soprattutto le normative edilizie sono le stesse che tu sia un grande o un piccolo comune.

Abbiamo quindi creando un sistema inefficiente e carico di frustrazioni in base alle credenze di tutte le parti che vi concorrono. Chi gestisce il comune, i tecnici che intermediano con la legge, i proprietari che modificano l’immobile e i successivi proprietari che ne attendono la consegna.

[Paradosso 0:]

Noi di Lecco 100 citiamo sempre il fatto che le regole servono a potersi immaginare un futuro possibile, ma pensare di risolvere i problemi aumentando le regole di solito produce nuovi problemi.

Una soluzione reale

Avendo gestito aziende di informatica mi è capitato di gestire i servizi informatici di diversi comuni. Semplicemente si stimava il budget delle ore necessarie e le si utilizzavano solo su richiesta, senza cadenze fisse. Insomma, a parità di risorse si rendeva flessibile la gestione del tempo.

L’altra soluzione che l’esperienza in paesi più organizzati dell’Italia mi ha insegnato è semplicemente insistere. Possibilmente in più persone organizzate in tempi diversi.

L’accesso all’energia e i suoi paradossi

Quando parliamo di energia parliamo di Elettricità, Gas, Acqua. Le modalità di installazione e di rilascio sono diverse:

  • Elettricità: rilasci delle dichiarazioni e la ottieni velocemente, anche in caso di installazione del contatore
  • Gas: devi rilasciare una serie di dichiarazioni tecniche certificate e per ogni passaggio, contratto, allacciamento e fornitura i tempi vanno dai 15 ai 30 giorni.
  • Acqua: te la danno solo se hai la proprietà del bene o un contratto di comodato/affitto.

[Paradosso 1:]

Questo vuol dire che se stai ristrutturando solo un monolocale puoi avere l’elettricità, per il gas devi aspettare le certificazioni degli idraulici e per avere l’acqua devi fare il rogito. Puoi caricare il cellulare ma non puoi pulire il pavimento. Scordati di installare una cucina. Quindi l’acqua, la fonte indispensabile della vita e di pulizia è di fatto la più inaccessibile. In compenso puoi guardare Netflix.

La comunicazione che genera paradossi

Una comunicazione classica con un fornitore di energia, ad esempio il Gas, inizia con il contratto e poi prosegue con la richiesta di certificazione dell’impianto da parte di un tecnico, dei dati catastali e una documentazione di riepilogo.

La probabilità che ci sia qualcosa che non va o un dato mancante è quasi una certezza; quindi, il fornitore analizza e risponde chiedendo documenti aggiornati. Tu li invii e chiedi le date per le installazioni e l’avvio della fornitura.

A questo punto cominciano i paradossi, ovviamente ne parlo perché li ho vissuti sulla mia pelle.

Daniel Pennac, meraviglioso scrittore e insegnante di liceo classico in Francia, diceva che quando fai una domanda a un allievo ti può dare tre possibili risposte:

  • quella giusta
  • quella sbagliata
  • quella assurda

Quella assurda è facile. Dopo una settimana dall’invio telefoni e ti dicono di mandargli i documenti cartacei perché quelli digitali non li riescono a scaricare.

[Paradosso 2:]

Ma ovviamente Pennac non ha tenuto conto della fantasia italiana che rende possibile la quarta: non rispondere.

Non risponde anche ai solleciti, ma grazie alla tecnologia moderna il fornitore ha un fantastico call center con numero verde che ti potrà aiutare.

Il call center

“Traduzione: Un buon servizio clienti è raro. Quando qualcosa è raro, ha valore. Quando qualcosa ha valore, è costoso. Un cattivo servizio clienti è il nostro modo di far risparmiare i nostri clienti.”

“Buongiorno, la telefonata verrà registrata, se vuole assistenza su …”

Dopo un percorso che sembra una avventura radiofonica dove fai le scelte con una tastiera e ogni tanto ti propone dei tempi di attesa o “se preferisce la richiamiamo”, ad un certo punto senti:

“L’operatore le risponderà a breve dalla Romania”

Mi sono sempre chiesto perché mi devono dire da dove risponde l’operatore, cosa cambia in me sapere che risponde dalla Romania o dall’India? A me basta che risponda!

Devo dire che dopo un po’ di anni con Amazon e il suo ineccepibile call center che mi ha sempre risolto qualsiasi problema, l’azienda ha dimostrato a tutti gli altri che qualcosa si può migliorare. Siamo ancora molto lontani dal concetto di Customer care perché probabilmente gli italiani non sanno che esiste.

I tre operatori dell’azienda del gas con cui ho avuto a che fare sono stati gentilissimi, hanno ripercorso tutta la storia, hanno confermato che ho risposto ad ogni richiesta correttamente e alla fine si sono schiantati contro il muro di silenzio dell’installatore, che loro evidentemente pagano per fare il suo lavoro, ma non per rispondere al cliente né tantomeno a loro.

[Paradosso 3:]

Quindi possiamo dire che l’azienda paga un call center inutilmente per tamponare la mancanza di comunicazione con altra comunicazione inutile e di fatto produce l’incapacità di rispondere ai clienti che gli danno da mangiare:

  • il call-center non può risolvere il problema
  • se la comunicazione/organizzazione funzionasse il call-center non esisterebbe
  • quelli che lavorano al call-center è meglio che non si facciano domande sulla loro utilità professionale
  • qualsiasi cosa farai come cliente non avrà nessun effetto, escluso il cambiare operatore ricominciando da capo e facendoti del male.

Una soluzione reale

Più di un allievo di Lecco 100 negli anni è entrato a far parte di aziende che ristrutturano processi aziendali. Uno di questi mi ha raccontato che uno dei più grossi call center di una grande azienda software italiana è stato oggetto dei loro studi di riorganizzazione con il risultato che avrebbero potuto ridurre del 75% i costi legati alla gestione delle attività del call center. Il cliente che aveva come obiettivo il 15% si è accontentato del 25%.

Dopo l’azienda del gas capisco che non è così difficile migliorare qualcosa.

Quando il paradosso diventa pericoloso

Il paradosso diventa pericoloso quando non hai alcuna scelta possibile che possa rispondere validamente al problema. In sintesi, non puoi vincere, non puoi smettere di giocare e non puoi pareggiare.

Questa cosa in psicologia si chiama doppio legame ed è stato ipotizzato da Gregory Bateson antropologo e psicologo osservando il comportamento di pazienti schizofrenici, vedi Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Doppio_legame_(psicologia)

Le madri sono dei talenti naturali nella creazione di doppi legami in totale buona fede, ecco un esempio: Tu hai 16 anni e la mamma per il tuo compleanno ti compra due paia di jeans. Vai nella tua stanza, ne indossi uno ed esci per farti vedere. La mamma ti guarda e dice “Ma allora quell’altro non ti piace”. Game over.

Se vieni costantemente messo in una situazione di stallo perché le parole dicono una cosa e le emozioni un’altra e la tua mente non accetta l’incompletezza, sei destinato ad una nevrosi acuta.

Ed è esattamente quello che succede quando qualcuno non risponde ad una richiesta per la quale dipendi da lui, in una situazione dove hai vincoli e scadenze interdipendenti fra loro.

Una soluzione reale

Finché i paradossi restano linguistici sono risolvibili. Per esempio, si potrebbe rispondere alla mamma che non puoi mettere due pantaloni alla volta. Oppure che hai indossato l’altro paio sotto. Oppure “si mi piace questo, l’altro riportalo al negozio!”

Paul Watzlawick e Giorgio Nardone hanno fondato la scuola di Psicoterapia breve strategica che con innumerevoli successi ha dimostrato praticamente che la ristrutturazione del pensiero del paziente è una strategia che funziona.

In conclusione

  • non possiamo essere certi di dire qualcosa esattamente, quindi non possiamo parlare di verità assoluta
  • le nostre decisioni contengono sempre potenzialmente dei paradossi
  • per onestà devo dire le cose cambiano costantemente e c’è sempre la possibilità che qualcuno menta volontariamente

Se vi sentite confusi, non trovate un inizio e una fine, è esattamente lo stato mentale che i paradossi producono.

Spero che possiate cominciare ad accorgervi dei paradossi che vivete e che vi circondano, e che possiate divertirvi a generarne di nuovi, perché, nonostante tutto, la specie umana è stata in grado di navigare prima di sapere cosa fosse un’onda e la nostra mente è in grado di convivere con contraddizioni, di cambiare, di adattarsi e migliorare.

Se stanotte farete strani sogni non preoccupatevi.


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Verso l’intelligenza emotiva ed oltre

Ho fatto un patto sai con le mie emozioni…le lascio vivere e loro non mi fanno fuori! (Vasco Rossi)

DAVOS/SWITZERLAND, 27JAN11 – Daniel Goleman, Co-Director, Consortium for Research on Emotional Intelligence in Organizations, Rutgers University, USA, speaks during the session ‘The New Reality of Consumer Power’ at the Annual Meeting 2011 of the World Economic Forum in Davos, Switzerland, January 27, 2011. Copyright by World Economic Forum swiss-image.ch/Photo by Michael Wuertenberg

Correva l’anno 1995 e Daniel Goleman pubblicava il suo libro “Intelligenza emotiva” ed il suo approccio ha avuto un successo enorme. Mi ricordo che lo lessi nel 1997 in italiano e ne rimasi colpito, lui scrive bene ed è chiaro e ci sono molti esempi. Era già qualche anno che gli psicologi trattavano il tema delle emozione con un interesse accademico e clinico e con una prospettiva nuova, Daniel Goleman ha trovato le parole giuste.

Come sempre che conta è trovare la domanda corretta: Pesano di più le conoscenze e il sapere o la gestione e il controllo delle emozioni per avere una vita di successo? Negli anni ‘90 si diceva: Vale di più avere un Q.I. (quoziente intellettivo) alto o un Q.E. (quoziente emotivo) alto?

Sembra che prevalga la capacità di riconoscere e controllare le nostre emozioni, saperle esprimere e comunicare, e quindi avere un buon comportamento. Il Q.E. favorisce la crescita personale e il successo sociale. E visto che, come dicono i maestri, la comunicazione e il comportamento sono due facce della stessa medaglia, un buon comportamento favorisce una buona comunicazione.

Teniamo conto del periodo in cui questo concetti sono stati espressi e del fatto che sono una emanazione della cultura americana, funzionale anche alla visione occidentale in generale.

Ci sono paesi con culture diverse dalla nostra, come molti stati islamici o orientali, dove l’autoritarismo è considerato indispensabile nel comportamento di chi comanda.

Da noi per esempio l’essere autorevoli, cioè essere competenti e con esperienza dimostrata in un argomento, può essere un buon criterio di scelta per un insegnante. Ma l’intelligenza emotiva sta li a dirci che ci sono motivi di successo nella comunicazione dei grandi carismatici che riguardano la loro capacità di rappresentare le emozioni più che le storie in sé.

Questa qui sotto è la mappa della prima formulazione delle dimensioni dell’intelligenza emotiva:

Daniel Goleman sostiene che ci sono delle competenze personali e delle competenze sociali.

L’aspetto ancora più interessante è che Daniel Goleman si concentra su quello che dipende da noi, sull’output delle nostre azioni, conseguenza di come riconosciamo e controlliamo le nostre emozioni. Pensate a quante volte vi siete pentiti per non aver taciuto.

Si aprono scenari interessanti, ad esempio una persona con una grande fiducia in se stessa potrebbe avere un basso autocontrollo, quindi una minima analisi di noi stessi può darci delle indicazioni su cosa migliorare.

Vedi Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Intelligenza_emotiva

Ci sono ovviamente punti di vista diversi su cosa sia il carisma, e in programmazione neuro linguistica nei libri di Robert Dilts, qualche anno prima di Goleman, lo studio dei comportamenti dei grandi carismatici ha portato a trovare degli elementi linguistici comuni e trasversali, Da Gesù Cristo ad Adolf Hitler, identificando modelli di comunicazione.

È doveroso notare, come diceva Karl Popper, che la psicologia non è una scienza. e molte cose sono cambiate.

Ad esempio, se consideriamo la parte di input, cioè le emozioni che proviamo quando gli altri comunicano con noi, scopriamo che quando impariamo qualcosa memorizziamo le nozioni e insieme le emozioni che stavamo provando in quel momento, perché pare che la memoria nasca proprio dalla reazione emotiva, che il nostro cervello rettile produce. Poi si consolida nel tempo nella neocorteccia. E quindi se ci annoiavamo mentre leggevamo Manzoni a scuola anche oggi sbadigliamo alla vista dei promessi sposi. Però se riusciamo a cambiare le nostre emozioni controllandoci potremmo riuscire a imparare quel maledetto inglese che è tutta la vita che ci perseguita.

Un’altra scoperta relativa alle emozioni, di un secolo prima, è che quando una comunicazione fortemente emotiva viene interrotta bruscamente (es: la rottura di una relazione) si genera un effetto di vuoto che ci spinge a cercarne i motivi, magari inesistenti. Questo lo dobbiamo a Bluma Zeigarnik. Ecco svelato il motivo perché le serie tv si interrompono sempre in un momento emotivo. Il seguito alla prossima puntata.

Il punto di vista precedente che aveva avuto più successo relativamente alle emozioni è stato quello derivato da quarant’anni di studi di Paul Ekmann che, a partire da ricerche antropologiche ha avuto modo di notare che ci sono emozioni di base che sono comuni a tutti gli uomini, a prescindere dalla cultura di origine. A scatenare il putiferio è stata la sua constatazione che le emozioni di base si esprimono attraverso microespressioni facciali riconoscibili.

Tutto questo prima che venissero scoperti i neuroni specchio a metà degli anni ‘90. I neuroni specchio sono quelli che di fatto ci danno la capacità di imitare (imitazione=apprendimento) e di provocare empatia, di accendere le stesse parti del cervello della persona che stiamo guardando o ascoltando.

Negli ultimi anni sono emersi gli studi di Lisa Feldmann Barrett sulla natura delle emozioni e spesso, secondo lei, si dimostrano incontrollabili perché sono reazioni che abbiamo appreso, a cui siamo stati educati, per saper scegliere come reagire in ogni situazione. Insomma, per la maggior parte sono anch’esse un prodotto culturale specifico del contesto in cui cresciamo, soprattutto se vissute in un gruppo. Paul Ekman potrebbe sembrare in contrapposizione con questa tesi, in realtà i suoi studi sono piuttosto profondi e distinguono le reazioni emotive del singolo. Nel 1987 condusse un esperimento per stabilire quanto influisse il contesto sociale, testando un gruppo di americani e uno di giapponesi, rilevando come i giapponesi apparissero meno espressivi solo in compagnia, mentre da soli esprimevano le stesse emozioni primarie.

Vista la varietà delle ipotesi e la vivacità del dibattito vi invitiamo a guardare qualche filmato su YouTube o TED Talk, perché a parte Karl Popper, gli altri autori sono tutti vivi mentre sto scrivendo e quasi tutti continuano a pubblicare.


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Efficienza e teoria dell’informazione

“Il diavolo è nei dettagli.” – Motto della Toyota Motor Company

Un argomento su cui riflettere.

La teoria dell’informazione propone un modello per spiegare come si formano i significati e il sapere. Va oltre la linguistica e tocca elementi di dialogica e comunicazione, nonché almeno due diversi metodi di analisi computazionale. C’è molto da riflettere e per quanto ci riguarda ci limiteremo a valutare alcuni aspetti pratici che ci possano portare qualche vantaggio professionale.

Rif: https://en.wikipedia.org/wiki/DIKW_pyramid

Il problema dell’efficienza

Una delle domande che mi appassiona è: qual è il metodo più efficiente per prendere appunti, per tracciare l’informazione e per mantenere il significato?

Negli anni ‘80 quando era di moda la lettura rapida Woody Allen raccontava una storiella: “Ho fatto la lettura rapida di Guerra e Pace. Mi ricordo che parlava della Russia.”

Questo per dire che il rapporto fra velocità e ritenzione dell’informazione è inversamente proporzionale, più vai veloce e meno memorizzi.

Se vai molto lento memorizzerai di più, ma la profondità è nemica dell’efficienza. Ciò significa che, ad esempio, posso raccontare una storiella usando:

  • la scrittura
  • una mappa concettuale
  • una mappa mentale

L’attenzione nello specifico esempio si concentra sulla relazione tra la quantità di informazioni e il dispendio di tempo.

Tutti i numeri relativi al rapporto tempo/completezza sono solo stime approssimative.

La storia scritta

“Giorgio è un contabile, bruno e con gli occhi azzurri.

Ama Cristina, un’interprete bionda con gli occhi verdi che lavora con lui.

Giorgio possiede dal 2018 un’auto che Cristina guida con patente B. L’auto è un SUV BMW verde”.

  • Tempo di creazione: 5 minuti
  • Quantità di informazioni: 50% parole e 50% immaginazione.
  • Pro: scrivere è un’abitudine e rispondere in tempo reale al nostro pensiero.
  • Contro: non possiamo rappresentare le immagini che sono la maggior parte della nostra capacità di percepire e spiegare.

La mappa concettuale

  • Tempo di creazione: 20 minuti
  • Quantità di informazioni: 80% parole + immagini + relazioni e 20% immaginazione.
  • Pro: non abbiamo un centro, possiamo iniziare a leggere ovunque, e le immagini supportano la percezione e le relazioni sono dettagliate.
  • Contro: richiede molto tempo.

La mappa mentale

  • Tempo di creazione: 5 minuti
  • Quantità di informazioni: 70% parole + immagini + relazioni e 30% immaginazione.
  • Pro: scrittura veloce, lettura veloce e immagini che supportano la percezione.
  • Contro: abbiamo bisogno di un centro per iniziare la storia e alcuni dettagli delle relazioni potrebbero essere nascosti.

Dal punto di vista dell’efficienza, il vincitore è la mappa mentale.

Dal punto di vista della completezza, il vincitore è la mappa concettuale.

Questo è uno dei motivi per il quale insegniamo per prima cosa a fare le mappe mentali, vedi articolo:

Sulle spalle dei giganti: Tony Buzan e le mappe mentali

Ciò non toglie che anche la scrittura, grazie a metodi relativamente recenti e soprattutto a nuovi strumenti informatici, può essere gestita in modo più efficiente, e per questo insegniamo la teoria del Second Brain e i Personal Knowledge Management, vedi articolo:

Tiago Forte: come costruire un secondo cervello


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La condizione umana e la saggezza. Scopriamo l’Ikigai.

“La verità vi renderà liberi, ma prima vi renderà infelici.” (Richard Rohe)

Negli articoli precedenti di questo blog abbiamo mostrato metodi e strumenti professionali utili per lavorare meglio e vivere meglio. L’età matura ci ha donato l’esperienza e la riflessione sull’esperienza ci ha portato a selezionare quanto di buono abbiamo potuto provare e sperimentare di persona. Per noi e in particolare per i nostri giovani, per crescere.

Perché combattiamo?

“Chiedersi perché combattiamo è come chiedersi perché le foglie cadono. È nella loro natura” (World of Warcraft -Pandaria Trailer)

La realtà è sempre stata difficile, e possiamo vederlo dalla nostra storia, dal neolitico ad oggi. Per quello che ne sappiamo, nel neolitico abbiamo creato i primi strumenti per riscattarci dallo stato di soggezione ai vincoli della natura animale e nel presente siamo talmente pervasivi nella realtà del pianeta da rischiare di distruggerlo.

Per dare una misura dal Paleolitico al Neolitico sono trascorsi circa due milioni e mezzo di anni. Dal Neolitico ad oggi circa 12.000.

Per dare qualche riferimento sui grandi pensatori che hanno analizzato la condizione umana possiamo citare il Budda, che lo ha fatto nel modo più diretto con le Quattro nobili verità:

  1. C’è la sofferenza.
  2. Esiste un’origine della sofferenza.
  3. Esiste la cessazione della sofferenza.
  4. Esiste un sentiero che porta alla cessazione della sofferenza.

(vedi Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Quattro_nobili_verità)

Per tornare nella cultura occidentale, in particolare nella cultura del Cristianesimo dalla quale siamo influenzati se siamo cresciuti in Italia, praticanti o no, e nella quale esiste una forma di ottimismo finale. La speranza di riscattarci da una vita piena di scelte sbagliate, di errori, di sofferenze e di avere una seconda possibilità, come nel caso della donna malata che ha toccato la veste di Cristo citata nei vangeli: https://www.laparola.net/wiki.php?riferimento=Mt9,20-22;Mc5,25-34;Lc8,43-48&formato_rif=vp.

Queste citazioni sono una premessa utile per notare che anche Gesù Cristo, nel discorso della montagna (https://www.laparola.net/testo.php?riferimento=Matteo+6%2C25-34&versioni[]=C.E.I.), riconosce che “A ciascun giorno basta la sua pena.”

La maggioranza dei genitori non ha gli strumenti per orientare i figli in una realtà complessa, anzi la maggior parte di noi inizia a conoscersi e a capire cosa ci piace intorno ai quaranta anni, secondo un’affermazione di Abraham Maslow lo psicologo umanista che ha studiato la gerarchia dei nostri bisogni rappresentata in una piramide.

La nostra responsabilità

Consapevoli del nostro ruolo educativo a Lecco 100 negli anni abbiamo sviluppato un percorso per aiutare i ragazzi, in particolare una sessione di mezza giornata, dove tutti quanti vengono messi in gioco con domande, risposte ed esercizi per aprire uno spazio alla consapevolezza di sé ed alle opportunità potenziali.

I passi sono:

  1. Esprimere desideri, a partire da un’ispirazione proposta da Alan Watts.
  2. Incontrare la filosofia giapponese dell’Ikigai per scoprire di avere dei motivi per vivere equilibratamente.
  3. Trasformare i desideri in obiettivi per poterli gestire e misurare consapevolmente.
  4. Incontrare il modo di pensare KaiZen per gestire anche i grandi obiettivi. vedi articolo: Kaizen per migliorare
  5. Imparare il metodo W.O.O.P per superare i possibili ostacoli. vedi articolo: Gabriele Oettingen e il potere del pensiero positivo
  6. Prepararsi al peggio, pianificando ed agendo. vedi articolo: Epitteto e il comportamento degli stoici
  7. Tenere conto delle regole esistenti per immaginare cosa possiamo fare. Vedi articolo: Edward De Bono e il pensiero Laterale

L’Ikigai

Cominciamo a parlare di Ikigai ricordando a tutti che l’equilibrio è un concetto dinamico, esiste solo in movimento, come quando attraversiamo un ruscello saltando di pietra in pietra. La felicità, che è un altro modo di finalizzare l’Ikigai, come abbiamo descritto nell’articolo dedicato a Mihaly Csikszentmihalyi, è uno stato che si raggiunge attraverso una serie di azioni, in movimento, vedi: Mihaly Csikszentmihalyi e la ricerca della felicità

Il termine Ikigai può essere tradotto in modi diversi, ragion d’essere, ragione di vita, un motivo per alzarsi la mattina.

Si concretizza quotidianamente in azioni finalizzate all’obiettivo di realizzare il proprio potenziale, che sia umano o professionale in un percorso pensato per cercare di avere una vita equilibrata.

I Cinque Pilastri

  • Iniziare in piccolo
  • Dimenticarsi di sé
  • Armonia e sostenibilità
  • Gioia per le piccole cose
  • Essere nel qui ed ora

Questi titoli un po’ generici e sibillini nascondono una ricerca plurimillenaria che ci dice che per ogni cosa che intraprendiamo c’è sempre un inizio, dobbiamo in qualche modo darci fiducia, non essere per forza la versione che sentiamo di dover rappresentare di noi stessi, ma quella che potremmo essere praticando con gioia qualcosa che ci piace e poi ricordarci di essere presenti, qui ed ora.

Il diagramma di Venn qui sotto descrive da solo come funziona l’Ikigai.

Guardare il mondo, da studente, da lavoratore o da pensionato con le lenti dell’Ikigai, ci fa pensare al futuro come un posto dove potremo partecipare.

Noi di Lecco 100 ci limitiamo ad una introduzione per far scegliere ai ragazzi, nella lista dei loro desideri, quali rispondono alle domande dell’Ikigai.

La tesi dell’Ikigai è la seguente:

Se scopri qualcosa che ami fare continuerai a farlo fino a diventare bravo, e se questa cosa è utile al mondo e potrebbe essere qualcosa per cui essere pagato, raggiungerai un equilibrio.

Perché:

  1. se fai quello che ami e lo sai fare bene hai trovato la tua passione, quindi la prima domanda è: Cosa mi piace?
  2. se quello che ami fare è utile al mondo hai trovato la tua missione, quindi la seconda domanda è: Cosa sai fare?
  3. se diventi così bravo nel fare qualcosa hai trovato la tua professione, quindi la terza domanda è: Di cosa ha bisogno il mondo?
  4. e se il mondo ti ripaga per fare qualcosa di utile hai trovato la tua vocazione, quindi la quarta domanda è: Per cosa potrei essere pagato?

Avere le domande giuste rende più facile trovare le risposte. Pochi di noi trovano la loro passione da giovani, ed in ogni caso è sempre una scoperta.

Questo è tipico delle età dai 15 ai 20 anni, in cui facciamo delle scelte per prepararci a fare e lavorare nel mondo, terminando (forse) entro i 30 anni la ricerca di un’identità e di uno stile di vita soddisfacente.

Ad esempio, poniamo che vogliamo metterci a frequentare un corso per imparare a programmare. Potremmo chiederci se è qualcosa che risponde a tutte e quattro le istanze dell’Ikigai prima di farlo. Mi piace? Potrei amarlo? Potrei diventare bravo? Potrebbe essere un lavoro? Questo porta ad altre domande, ad esempio, se non lo so fare lo posso imparare?

Anche nel caso fosse un corso di lingua che ci serve per un lavoro già in atto possiamo farci le stesse domande.

Questo è il modo che abbiamo per costruire un obiettivo professionale che ci permetta di attraversare la vita adulta e di arrivare a una vecchiaia sostenibile.

L’ikigai è anche un modo per ritornare a noi stessi quando ci perdiamo, quando abbiamo momenti duri e dobbiamo trovare la forza di rialzarci e ritrovare una strada. Capita nella vita di perdere il lavoro, di lasciarlo volontariamente e di cambiarlo. Diversi allievi di Lecco 100 si sono presi un anno sabbatico o hanno cambiato radicalmente lavoro e sono venuti in aula a raccontarcelo.

Attenzione alle interpretazioni

Per prima cosa potremmo notare che se la finalizzazione dell’Ikigai fosse solo il lavoro, come capita in molte culture occidentali, nel momento in cui cesserai di lavorare perderai il tuo equilibrio.

Il significato che noi occidentali possiamo dare a queste parole differisce ovviamente dal senso profondo per l’appartenenza a un popolo tipica dei giapponesi e di altre culture orientali dove fare e lavorare sono soprattutto un termine di partecipazione alla società.

Secondo il professor Akihiro Hasegawa, IkiGai contiene la parola gai che deriva da Kai (conchiglia) che nel periodo Heian (794-1185) era considerata preziosa. Kai fa parte anche di altre parole come yarigai e hatarakigai che possono essere tradotte come il valore nel fare e nel lavorare. (vedi: https://it.insideover.com/politica/ikigai-vita-giappone.html)

Questo per dire che l’Ikigai è frutto di una cultura plurimillenaria molto diversa dalla nostra. L’Ikigai è inteso come uno strumento per vivere bene quotidianamente, concretamente e in ogni stagione della vita.

I giapponesi intendono quindi l’essere pagati, non necessariamente un ambito economico, ma una ricompensa sociale, vuoi perché mantenendo azioni equilibrate, ad esempio, nel movimento fisico e nella dieta, vivono più a lungo. Così nell’esercizio dell’arte e nel giardinaggio così diffuso in Giappone godono della bellezza e dei frutti. Nel crescere i figli educandoli alla saggezza si sentono ricompensati dall’esperienza.

Anche in Italia fare i nonni crescendo i nipoti è diventato un mestiere, forse il mestiere più bello e più difficile del mondo e non sempre lo apprezziamo così profondamente.

Se volete mettervi alla prova con un percorso più completo ci sono dei libri, ad esempio https://www.amazon.it/Ikigai-metodo-giapponese-Trovare-essere/dp/8809859391/

e per un approccio più immediato esistono delle app gratuite che potete scaricare sia per Android che per il mondo Apple.

Come sempre vi invito a provare, a giocare e ad essere grati a chi ci ha regalato tanta saggezza.


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Kaizen per migliorare

Cit. da Wikipedia: “Kaizen (改善) è la composizione di due termini giapponesi, KAI (cambiamento, miglioramento) e ZEN (buono, migliore), e significa cambiare in meglio, miglioramento continuo

Per chi di voi avesse già letto gli articoli degli ultimi due mesi, questo sul KaiZen era prevedibile, visto le volte in cui l’ho già citato.

Il Kaizen è diventato famoso in tutto il mondo con la qualità totale di Toyota, ed è il collante, un modo di pensare alla qualità, sia nell’ambito professionale che nell’ambito personale.

Dopo la Seconda guerra mondiale gli americani sono rimasti in Giappone e hanno creato dei laboratori per testare le teorie sulla qualità nel lavoro e nella produzione. Il Giappone in quel momento aveva perso la guerra ed era un paese arretrato dal punto di vista tecnologico e da ricostruire dal punto di vista industriale.

L’idea di fondo del KaiZen è che possiamo sempre migliorare, e possiamo farlo meglio se applichiamo con costanza piccoli cambiamenti continui, non imposti dall’alto, ma suggeriti dal basso, da chi effettivamente lavora. Inoltre, il modo di pensare del KaiZen è applicabile semplicemente a quasi tutte le attività umane.

Certo non abbiamo un tempo infinito, però possiamo mangiare anche un elefante, un pezzo alla volta.

Ad esempio, quando mi hanno regalato un libro di Kahneman, dopo cento pagine mi sono bloccato per un anno. Libro splendido. dove ogni concetto viene espresso con esempi pratici ma…nella versione italiana sono oltre 600 pagine di contenuto più le note.

Ispirandomi al Kaizen ho inserito un’abitudine positiva giornaliera: leggi dieci pagine al giorno di saggistica. Facendo due conti sono 3.650 pagine all’anno. Posso concedermi di leggerne cinque al giorno in una lingua straniera.

La teoria delle finestre rotte

Per tornare a una dimensione internazionale potremmo dire che il Kaizen ha il suo contrario, rappresentato dalla Teoria delle finestre rotte e che il KaiZen ne rappresenta la cura.

Citazione da Wikipedia: “La teoria delle finestre rotte è una teoria criminologica sulla capacità del disordine urbano e del vandalismo di generare criminalità aggiuntiva e comportamenti antisociali. La teoria afferma che mantenere e controllare ambienti urbani reprimendo i piccoli reati, gli atti vandalici, la deturpazione dei luoghi, il bere in pubblico, la sosta selvaggia o l’evasione nel pagamento di parcheggi, mezzi pubblici o pedaggi, contribuisce a creare un clima di ordine e legalità e riduce il rischio di crimini più gravi.”

Insomma, con piccoli interventi continuativi si evitano degenerazioni progressive del contesto sociale.

Obbligo o verità?

Come nel tipico gioco da adolescenti il KaiZen a livello personale può essere percepito come una forma di disciplina, come un gioco o come una sfida.

Mio figlio, ad esempio, percepisce come frustrante il doversi misurare ogni giorno con degli obiettivi autoimposti. Viceversa io lo trovo stimolante, come molte altre persone che ho visto addirittura raccontare i loro diari delle abitudini online, per esempio con questa ricerca.

Buone abitudini

Anch’io sulla scia del KaiZen mi sono lasciato ispirare e da molti mesi ho creato una tabella in Notion, avrei potuto usare Excel, per tracciare le mie abitudini.

Il mio obiettivo è di monitorare la pratica di buone abitudini e l’evitarne altre per me dannose, raggiungere ogni giorno un punteggio minimo di 3.

In pratica io uso questa tabella:

Una riga dettagliata:

Io uso le colonne Studio, Camminata, Meditazione, Lettura, Volontariato e VR per inserire un punto quando pratico queste buone abitudini, Uso la colonna Kaizen quando faccio qualcosa di nuovo, di cui non ho esperienza e imparo qualcosa. Le colonne NO alcol e NO fumo danno punteggi positivi se le evitassi, potrei anche scrivere -1 se le pratico e diminuire il totale della colonna TOTRIGA.

Fra le buone abitudini ogni giorno mi chiedo se c’è qualcosa di cui posso essere grato, o un momento magico e lo scrivo.

È solo un gioco?

No, è una cosa seria, serissima. mantenere accesa l’attenzione sui propri comportamenti ha delle ricadute pratiche continue, permette di:

  • praticare buone abitudini
  • identificare e affrontare abitudini negative
  • abituarci ad agire sulle cose che possiamo controllare
  • mantenere la nostra attenzione su pensieri positivi
  • affrontare meglio momenti difficili
  • riconoscere i momenti in cui impariamo
  • misurare nel tempo i nostri risultati
  • ringraziare per tutte le cose belle grandi e piccole che possiamo cogliere

Nel libro ci sono svariati esempi delle applicazioni personali del KaiZen, che vengono suggeriti in un percorso progressivo:

  • riconoscere che c’è un problema
  • accettare il fatto che potrai cambiare qualcosa
  • definire in cosa posso migliorare
  • immaginare gli effetti e breve e a lungo termine
  • Sfidarti, resistere, ricompensarti e ricordare

Non puoi tornare indietro e cambiare l’inizio. Ma puoi cominciare da dove sei e cambiare la fine. (C.S. Lewis)


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Edward De Bono e il pensiero Laterale

“Solo perché un problema non è ancora stato risolto non è detto che sia impossibile da risolvere.” (Agatha Christie)

Il tema di cui trattiamo in questo articolo è il modo in cui risolvere problemi, gli americani parlano di problem-solving. Ci sono molte cose che si possono dire a riguardo, ma restiamo su una semplice definizione. Abbiamo un problema quando non sappiamo come agire per superare un ostacolo indesiderato, di solito perché abbiamo insufficienti informazioni per affrontarlo. Gli elementi di un problema sono in parte noti, abbastanza da poterlo definire un problema.

Come affrontiamo un problema?

Come insegnante ho sempre affrontato il problema di rendere ripetibile una serie di azioni per ottenere un risultato, ad esempio, inserire numeri in un foglio elettronico e scrivere una formula per il totale.

Come formatore ho sempre cercato il modo di convincere gli allievi a provare i metodi e i comportamenti da me suggeriti, per imparare effettivamente se funzionano o no per loro.

Ogni volta ho cercato una soluzione ottimale su come proporre un tema. Spesso mi sono trovato in situazioni paradossali perché la nostra mente semplicemente si concentra sulle informazioni che riceve ovvero sul problema. Ad esempio, quando psicologi ed educatori negli anni ‘90 hanno fatto lezioni sui pericoli degli usi delle droghe nelle scuole superiori, hanno ottenuto l’effetto di aumentare il consumo delle droghe in quella fascia di popolazione. Noi stessi abbiamo ricevuto un’istruzione con l’obbligo di leggere libri, ad esempio, “I promessi sposi di Alessandro Manzoni”, con delle modalità che ce li hanno fatti odiare nonostante la qualità delle opere.

Adesso Vi do un problema, chiedetevi: come posso spiegare a dei ragazzini che comportarsi come bulli danneggia anche loro? Non basta dare degli ordini.

Altre volte si cerca di scendere nei dettagli di qualcosa, scoprendo che così si aumenta solo la confusione, come nella vignetta qui sotto della quale esiste anche una pagina di spiegazione https://www.explainxkcd.com/wiki/index.php/1343:_Manuals 🙂

Altro modo di risolvere problemi tipico delle burocrazie umane è quello di aumentare le regole. Di solito il risultato è che aumentano anche i problemi. Ci sono anche le cosidette ipersoluzioni, come la guerra, che di solito fanno più danni rispetto ai possibili vantaggi di chi vince.

Purtroppo, nella maggior parte delle situazioni, non fare nulla non è una soluzione. Pensate alla crisi pandemica o alle crisi finanziarie.

Cosa funziona per me e per molti altri

Di tutti i metodi, le didattiche, le semantiche, i linguaggi e gli strumenti che ho provato in una vita i miei preferiti sono senz’altro il pensiero laterale e il kaizen. Due tecniche che sono nello stesso tempo un modo di pensare, quindi di guardare alla realtà percepita, e una filosofia applicata con ricadute estremamente concrete nei risultati ottenuti.

Il pensiero laterale è stato formalizzato dal professor Edward De Bono, un vero gigante negli studi sulla creatività, ha creato anche il metodo de “i sei cappelli per pensare”.

Il prof. De Bono sostiene che per risolvere un problema:

  1. possiamo usare la logica, ma la logica è un metodo che tende a semplificare, a ridurre il numero delle variabili; quindi ha il difetto di essere rigida, come la selezione dei vincitori in un torneo a squadre.
  2. possiamo usare il pensiero laterale, che esclude la logica, che affronta il problema indirettamente proponendo ipotesi improbabili e creative, come il metodo di caccia di un granchio. Il granchio si muove lateralmente alla posizione della preda.

Esempi

A questo punto possiamo descrivere qualche soluzione da pensiero laterale. Il primo esempio è il filmato che mostro quando spiego le applicazioni pratiche del pensiero laterale. In questo film, basato su una storia vera, un insegnante di ballo insegna a degli allievi con problemi comportamentali e sociali a ballare. Voi direte: cosa centra il ballo con il disagio sociale?

Il risultato che l’allenatore si aspetta è che apprendendo un insieme di regole desiderabili, perché a tutti piace essere scelti per ballare, si può pensare che un buon comportamento, dettato da un insieme di regole, ci permetta di immaginare un futuro migliore. Le regole servono a poter immaginare come si potrebbe vivere. Ballare è un esempio concreto.

Un altro piccolo capolavoro del cinema e splendido esempio pratico di pensiero laterale, “Scacco matto nel Bronx” sempre basato su una storia vera, ci mostra una classe di adolescenti pieni di problemi familiari, in una scuola del Bronx, a cui viene proposto di imparare a giocare a scacchi. L’insegnante per convincerli dice “Nessuno ti può dare dello stupido se sai giocare a scacchi!”. Anche in questo caso l’accento è l’attenzione alla persona e ai suoi bisogni e non al gioco.

Come insegnante di informatica in passato mi sono messo alla prova con persone ipoudenti, ipovedenti e con altre disabilità. Per insegnare a creare cartelle (directory) su una memoria digitale, selezionare file, copiarli, incollarli e spostarli, dopo qualche test e una serie di tentativi, ho capito che anziché concentrarmi sull’esercizio concettuale avrei dovuto spostarlo sul piano fisico.

In pratica ad ogni inizio di lezione facevamo esercizi di “ginnastica” senza pensare al perché, solo movimento “fisico”: Crea Cartella CasaMia→crea file nella cartella con il tuo nome→crea un’altra cartella con nome CasaTua→copia il file con il tuo nome nell’altra cartella→cancella il file nella prima cartella.

In questo modo le persone si rilassavano e si concentravano sulle azioni, non sui risultati. E non potevano evitare di agire, di imparare e qualche volta di divertirsi.

Nel 2022 ho scoperto che nella zona dove abito c’è uno Spot dove fanno corsi di Skating. Per fare loro un esempio di pensiero laterale ho suggerito di insegnare ai bambini per prima cosa come si cade. Se impari a cadere, andare con lo skateboard diventa meno rischioso e di conseguenza più divertente.

Quando ho pensato a questa tecnica è stato perché quando ero bambino ho praticato Judo per qualche anno. Tutti gli insegnanti che ho avuto passavano 10 minuti in ogni lezione a insegnarci a cadere. Solo dopo molto anni ho capito che oltre a toglierci la paura di cadere ci insegnavano a rialzarci.

La teoria del pungolo

Nel 2017 Richard Taler ha vinto il premio Nobel per l’economia per aver espresso la “teoria del pungolo”.

Da Wikipedia: La teoria dei *nudge* (in inglese: Nudge Theory[1]) è un concetto che, nel campo dell’economia comportamentale, della psicologia cognitiva e della filosofia politica, sostiene che sostegni positivi e suggerimenti o aiuti indiretti possono influenzare i motivi e gli incentivi che fanno parte del processo di decisione di gruppi e individui, almeno con la stessa efficacia di istruzioni dirette, legislazione o coercizioni.

In altre parole, pensiero laterale. Nella foto a seguito l’esempio classico di questa teoria. Ammetto di aver riso la prima volta che l’ho visto.

Disegnando una mosca negli orinali per uomini si stimola a colpirla durante l’utilizzo, e di conseguenza si ha un uso corretto dell’orinale.

Nel master Lecco 100 parliamo delle più note tecniche di creatività e ci esercitiamo almeno in un paio di esse. Il pensiero laterale viene seminato piano piano negli esempi durante le lezioni perché richiede un livello di pensiero complesso. Ci aiuta molto anche un altro autore, Matteo Rampin, che nel suo libro “Pensare come un mago” fa largo uso del pensiero laterale e di altre tecniche per spiegare modi di pensare vantaggiosi di fronte a un problema. Come psicoterapeuta ha collaborato con scuola di “terapia strategica breve” del prof. Nardone, dove si fa largo uso di stratagemmi per far superare al paziente i paradossi in cui si è andato ad infilare.

Se vi affascina il tema in Italia abbiamo anche Umberto santucci che se ne è occupato e ha pubblicato materiali divulgativi online sul suo sito https://www.umbertosantucci.com/.


Vuoi partecipare al master nel 2023?

come iscriversi: https://www.lecco100.it/index.php/2022/09/08/vuoi-partecipare-al-master-2023/

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Jim Benson, Tonianne DeMariaBerry e il personal kanban

“La soluzione deve essere più semplice del problema” (attribuita a Paul Watzlawick)

Jim Benson e Tonianne DeMaria Berry sono insegnanti e imprenditori, esperti del Metodo Lean e di tutti gli elementi che lo vanno a supportare, come la filosofia Kaizen e il Kanban. Potete trovarli su Twitter.

La missione

Il tema è quello della gestione di flussi produttivi nelle grandi aziende, come Toyota che con questi metodi ha raggiunto risultati a livello mondiale. La missione che si sono posti Jim e Tonianne è stata quella di portare ai piccoli gruppi di lavoro, in particolare ai lavoratori concettuali, i vantaggi che questi metodi portano in termini di chiarezza, velocità e risultati nella gestione di progetti.

Se ci pensate è esattamente quello che in una nazione come l’Italia serve, visto che il nostro tessuto produttivo è composto per la maggior parte di aziende di piccole dimensioni. Il che ci evidenzia il paradosso che nonostante il testo di riferimento sia stato pubblicato nel 2011 non è mai stato tradotto in italiano.

In ogni caso dal 2015 abbiamo inserito una lezione nel master Lecco 100 per spiegare il metodo ai nostri allievi. La soddisfazione è stata vedere che nel tempo alcuni di loro hanno fatto corsi per i metodi Agile che utilizzano come strumento centrale di comunicazione proprio il Personal Kanban.

Concetti basilari sulla comunicazione visiva

La maggior parte di noi utilizza la vista per ricevere informazioni ed interpretare la realtà. La gestione dell’immagine è la maggiore capacità del cervello umano, in grado di astrarre il mondo fisico in quello mentale.

Questo significa che ci possono essere modi migliori di usare la nostra mente a seconda del contesto e sicuramente la forma giusta facilità la percezione dell’informazione.

Infatti abbiamo già parlato di mappe mentali come strumento visivo per la gestione di idee e oggi trattiamo il Personan Kanban come strumento visivo per la comunicazione di processo.

Quando parliamo di processo parliamo di rappresentare lo stato di una serie di attività in una linea temporale, qualcosa di dinamico visibile ADESSO e in movimento fino al suo termine, quindi una forma che cambia.

Notate quanto sia semplice la forma base di una lavagna Kanban, le tre colonne TODO, DOING (o Work In Progress) e DONE, ci dicono da sole cosa sta succedendo ADESSO.

ADESSO è la parola chiave del Personal Kanban. Basta spostare i post-it a mano a mano che le attività che contengono entrano in una diversa fase di lavoro.

Un post-it può contenere poche e semplici informazioni:

Le colonne riguardano sempre uno stato delle attività nel tempo e si adattano al contesto operativo. Ad esempio, io posso avere delle cose da fare ma la preparazione perché possano essere eseguite può essere una fase. Ad esempio, per una ricetta devo avere gli ingredienti.

In moltissimo casi, prima di rilasciare un programma software o un prodotto, ad esempio, può essere utile che qualcuno lo approvi e quindi ci sia una colonna dove viene spostato dopo averlo creato, in attesa di approvazione.

Ci sono poche semplici regole per creare una buona tavola Kanban.

  1. Visibile Adesso e aggiornata.
  2. Nella colonna dei Lavori in corso ci deve essere solo quello che possiamo effettivamente fare nel ciclo temporale, di solito entro la giornata.

Gli autori dichiarano che per ottenere buoni risultati nell’uso di questo metodo dobbiamo applicare poche buone prassi:

  1. Idealmente una serie di attività in un personal Kanban dura da una a tre settimane. Evitate di cambiare idea per “urgenze” a metà di un progetto, soprattutto se limitato ad una settimana. Le regole prevalgono sul processo.
  2. Ricordatevi sempre che siete Voi a tirare un’attività da una colonna all’altra, nelle attività concettuali essere “spinti” non favorisce di certo la creatività.
  3. Imparate dal passato. Scoprirete che alcune attività possono essere svolte più velocemente di quanto avete previsto ed altre invece si dimostrano più dispendiose di quanto pensavate. Chiedetevi: “se dovessi rifarlo con l’esperienza di oggi, cosa cambierei?”

Qualche esempio

Con il tempo potreste scoprire usi diversi del Kanban, ad esempio un mio allievo viene continuamente interrotto dal suo capo per cambiare un lavoro in corso a favore di un altro.

È comunque utile usare una forma Kanban come strumento di comunicazione (e di negoziazione con il capo) se ci aiuta a concentrarci sul vero problema, lo spreco di tempo.

Se in un gruppo di lavoro è necessario far crescere delle persone, può essere utile comunicare il concetto di priorità, possibilmente motivandolo con le esigenze del cliente:

Oppure in molte applicazioni che mostrano tabelle di database oggi è possibile ottenere delle viste Kanban sulle colonne che contengono delle categorie, come qui sotto le piattaforme su cui possono essere eseguiti alcuni metaversi.

Una volta acquisita, la forma di una tavola Kanban diventa uno strumento di lavoro semplice ed efficace.


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Jane McGonigal e la realtà in gioco

“Il gioco è la medicina più grande.” (Lao Tse)

Anche Jane McGonigal, come Tiago Forte di cui all’articolo precedente, deve la sua fortuna ad un evento traumatico.

Nel luglio 2009, Jane McGonigal ha subito una commozione cerebrale dopo aver battuto la testa nel suo ufficio. I sintomi erano gravi, sono durati per diverse settimane e l’hanno portata a desiderare di suicidarsi. Jane McGonigal era una designer di videogames. Volendo guarire dalla sua condizione, creò un gioco per curarla. Inizialmente il gioco si ispirava alla serie Buffy l’Ammazzavampiri, poi è stato rinominato SuperBetter. Jane McGonigal è riuscita a raccogliere un milione di dollari per finanziare una versione ampliata del gioco e ha scritto un libro con il medesimo titolo.

Proseguendo per quella strada Jane McGonigal ha approfondito i suoi studi sul perché i giochi possono dare effetti positivi nella nostra esistenza, scrivendo un bel libro il cui titolo originale descrive bene il problema che si è posta: Reality Is Broken: Why Games Make Us Better and How They Can Change the World. Una possibile traduzione è: La realtà è guasta: Perché i giochi ci rendono migliori e come possono cambiare il mondo.

E le sue risposte sono costruite come regole per riparare la realtà.

In particolare, lei si ispira ai videogames ed all’esperienza quotidiana.

Quando ho letto il libro qualche anno fa ne sono rimasto colpito, l’ho trovato originale, chiaro e nello stesso tempo:

  1. un trattato pratico di psicologia positiva
  2. una dimostrazione dei cosiddetti “real games” ovvero giochi che mixano il digitale con azioni nel mondo fisico, un modo diverso di praticare una AR, realtà aumentata.
  3. un bel libro sulle prospettive potenziali della gamification di tante attività umane che con i sentimenti suscitati dal gioco danno al dolore dell’esistenza il senso degli elementi di una sfida.

La tesi iniziale del libro è che nella nostra società orientata alla produttività si sottovaluti il potere formativo e terapeutico dei giochi.

Il motivo per cui noi giochiamo è che siamo in una situazione in cui possiamo rischiare qualcosa senza farci male, quindi ci sentiamo implicitamente potenti, inoltre nei giochi l’obiettivo è chiaro come nelle fiabe, liberare la principessa, sconfiggere il drago, trovare il tesoro. Pensate ai classici giochi come Supermario o i Pokemon. Inoltre possiamo sempre sapere a che punto siamo e fermarci. Nei giochi di ruolo accettiamo le regole sociali insieme ad altri. Accettiamo di superare ostacoli e problemi inventati per divertirci, anche se, ad esempio, in Tetris sappiamo che non possiamo vincere però possiamo sempre provare a sopravvivere più a lungo, come nella vita. Tutti abbiamo dei momenti difficili e fare “come se” fossimo parte di un gioco, vederci in terza persona, sono atteggiamenti che sembra ci aiutino a vivere meglio quei momenti. Ad esempio, in una intervista a dirigenti di alto livello il 70% di loro dice che gioca a abitualmente ai casual games per diminuire lo stress e sentirsi più energici.

Nella mappa a seguito sono riepilogati gli elementi del gioco.

Con l’avvento dei videogames l’industria ha creato uno dei settori più fiorenti dal punto di vista economico, un insieme di esperienze che prime erano riservate solo alla nostra immaginazione nella lettura o nella visione di filmati. Quindi Jane McGonigal si chiede se anziché pensare ai giochi come pura attività futile non potremmo ottenere dei vantaggi. Ad esempio, inserendo nel curriculum che siamo dei Master esperti in Dungeons & Dragons. Vuol dire che siamo potenzialmente in grado di guidare un gruppo, in pratica potremmo pensare di diventare dei project manager nel nostro settore di conoscenza professionale sicuramente meglio di persone che non hanno mai gestito un viaggio o simulato una campagna o delle battaglie. Ad esempio, nel recente passato chiunque giocasse bene a scacchi era considerato intelligente, vedi il film “Scacco matto nel Bronx”.

Quindi Jane McGonigal approfondisce i motivi per cui i giochi rispondono profondamente ai nostri bisogni personali e sociali, dimostrando quanto sono un’applicazione pratica della filosofia umanistica positiva, da Maslow e, in particolare, alle tesi sulla felicità del professor Csikszentmihalyi di cui abbiamo già scritto.

Creare degli obiettivi lavorativi costruiti come tappe di un gioco sarebbe un modo ideale per stimolare le nostre migliori capacità, cominciando a rendere chiari gli obiettivi e i loro risultati, aumentando la speranza di riuscire, soprattutto in contesti difficili in cui la resistenza fisica o psicologica sono una caratteristica importante. Costruire uno spirito di squadra, soprattutto in un ambito competitivo è importante e anche allenatori come Julio Velasco affermano che l’affettività è un elemento fondamentale nella leadership.

Queste mappe mentali che vedete sopra sono parte della lezione dedicata alla gamification, quando dalla gestione di obiettivi personali passiamo alla creazione di obiettivi per i gruppi di lavoro e cerchiamo di renderlo chiari, rischiosi e stimolanti come un gioco.

Ma non è finita qui, negli ultimi 15 anni Jane McGonigal si è dedicata ai giochi di simulazione:

“Nel 2008, sono stata lead designer di Superstruct, una simulazione di sei settimane gestita dal gruppo Ten-Year Forecast all’Institute for the Future di Palo Alto, in California. Il nostro obiettivo era mappare tutte le conseguenze economiche, politiche, sociali ed emotive di una minaccia globale, come una pandemia. La simulazione era ambientata undici anni in avanti, nell’autunno del 2019, e durante questo programma, quasi diecimila persone in tutto il mondo si sono ritrovate a vivere virtualmente cinque diverse minacce, tra cui un’epidemia globale di un virus immaginario chiamato ReDS, abbreviazione inglese di “sindrome da distress respiratorio”.”

Questo è solo l’incipit delle sue ultime avventure. In pratica i suoi studi si sono concentrati sugli effetti positivi nel creare simulazioni di eventi sia positivi che negativi ambientati in futuri di 5 -10 anni. A riguardo ha creato un corso Gratuito su Coursera per spiegare come esercitare il Futures Thinking.

Per chi di Voi ha una cultura in filosofia troverete molto del pensiero trascendentalista americano e se avete letto gli articoli che abbiamo pubblicato a settembre 2022 potreste riconoscere molto di quanto hanno espresso altri scienziati europei che hanno lavorato in America, come la dottoressa Oettingen e il dottor Csikszentmihalyi e il pensiero degli stoici antichi greci e romani.

Fra i moderni italiani possiamo citare sul tema il libro di Baricco “The Game” e la tesi del cambio d’epoca di un altro pensatore profondo come è Paolo Benanti con il suo libro “Digital Age”.

Da qualche anno nel nostro master parliamo di gioco, sia spiegando gli effetti della gamification trattati dalla McGonigal che inserendo gli elementi suggeriti da alcuni metodi filosofici applicati come il Kaizen giapponese. Infine, abbiamo la possibilità di provare, Covid permettendo, qualche sessione in realtà virtuale. Il tutto con l’obiettivo di rendere più leggero e consapevole il nostro agire quotidiano.


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