Durante la mattina del 23 Maggio si sono intervallati ben tre ospiti con caratteristiche molto diverse, ma accomunati da una forma mentis “imprenditoriale”, testimoniata nel racconto della propria esperienza.
Diana Mcwilliams, come suggerisce il nome, è di origini straniere, ma dopo aver sposato un italiano e aver vissuto per tanti anni nel nostro territorio, si sente pienamente “brianzola”. E proprio all’ospedale di Merate comincia, giovanissima, a fare volontariato: qui conosce una delle prime equipe in Italia ad occuparsi di malati terminali e cure palliative. Si tratta dell’associazione Fabio Sassi, nata nel 1989 in seguito alla morte di un giovane malato di tumore, per la quale comincia ad occuparsi della raccolta fondi. Le cure palliative, che approdano in Italia per la prima volta con la Fondazione Floriani, devono il loro nome al “pallium” romano: il mantello che proteggeva il viaggiatore dal freddo. Questo tipo di terapia mira infatti non alla guarigione del paziente, ma ad alleviare le sue sofferenze: il dolore fisico non è però l’unico che prova il malato terminale, esiste infatti anche un dolore spirituale, psicologico e sociale. Quest’ultimo è dovuto al fatto che il malato, e la sua famiglia, vengono progressivamente abbandonati dalla società e lasciati a loro stessi: di fronte alla morte, ci si sente a disagio e, spesso, semplicemente si sceglie di evitarla allontanandosi. Diventa presto evidente che l’attività in ospedale non basta: si cerca di intervenire nei comuni dove si trovano i pazienti e l’equipe guidata dal dottor Marinoni incomincia a offrire ai familiari, che assistevano a casa i malati, la possibilità di essere temporaneamente sostituiti, da un medico o da un infermiere, qualora avessero necessità di allontanarsi per i più svariati motivi. Anche l’ACMT ha incominciato a offrire lo stesso servizio a domicilio per la zona del lecchese: 365 giorni all’anno vengono dislocati infermieri e dottori che settimanalmente si trovano per scambiarsi informazioni sui pazienti. L’obbiettivo è quello di permettere al malato terminale di morire nella propria casa e non in ospedale dove finisce, suo malgrado, con il diventare un numero tra tanti: si cerca dunque di dare dignità agli ultimi giorni di vita di una persona, in modo che li trascorra più serenamente possibile. La persona malata deve infatti essere parte attiva: è importante che sia informata sulle proprie condizioni e consultata sulle possibilità di cura. Con il tempo però ci si rese conto che non tutti potevano usufruire del servizio a domicilio: alcune case strutturate su due piani non permettono infatti la deambulazione, con l’allungamento della vita, inoltre, spesso si hanno coppie con coniugi anziani che da soli non possono prendersi cura del malato, anche perché sono sempre più numerose le “famiglie disperse” in cui i figli abitano lontani. Per tutti questi motivi si decise di creare un “Hospice” un luogo, che fosse il più possibile simile ad una casa, in cui le persone potessero passare gli ultimi giorni di vita, ma non solo, anche vivere un periodo di “assestamento” tra la dimissione dall’ospedale e il ritorno a casa. Il concetto di “hospice”, nato in Inghilterra negli anni ’50, era ancora relativamente “nuovo” nell’Italia del 1997, anno in cui cominciarono i lavori nella ex canonica di Airuno. Nonostante le difficoltà burocratiche, aggravate da leggi che prevedevano accorgimenti più “sanitari” (come l’ossigeno fino ai letti) e dai contrasti avuti con il Comune, grazie al grande impegno degli Alpini e ai fondi raccolti dall’associazione, l’hospice “Il Nespolo” vede finalmente la luce nel 2002. La struttura prevede oggi 12 camere letto con posto letto per un familiare, se il paziente lo desidera. Paziente che per accedere alla struttura viene segnalato dal medico di base: l’hospice si trova a metà tra l’ospedale di Merate e quello di Lecco, quindi nel 2013 ha accolto ben 68 pazienti dal bacino del primo, 68 dal secondo, 17 da Bellano, e altri ancora da Milano e Bergamo arrivando, da quando è stato aperto, ad accogliere ben 2143 persone. Ogni malato viene ospitato gratuitamente ma il costo per l’associazione è, per ognuno, di 357 euro al giorno, parzialmente coperti da un contributo dell’Asl di 229 euro. E’ dunque importantissimo reperire fondi attraverso eventi (Festival Cinetica, camminate), attività esterne (mercatini) e correlate (Scuola di formazione e master): anche perché nell’hospice oltre ai tanti volontari, sono impiegati anche molti professionisti. Medici, infermieri, musicoterapisti ma anche una filosofa, che affianca il prete, nel cercare di dare risposte, da un punto di vista laico, alle domande sul senso della vita quando questa si appresta a finire. Diana Mcwilliams, da anni 30 anni presidente dell’Associazione Fabio Sassi, ha voluto ribadire l’importanza dell’onestà nei confronti del paziente: solo dandogli, con la massima chiarezza, tutte le risposte che cerca, potrà evitare tensioni inutili dovute al fatto di non sapere con esattezza che cosa gli stia capitando. Accettare la realtà permette al paziente di sfogarsi, togliersi un peso, e sentirsi ulteriormente alleggerito dalla condivisione del dolore. Una volta che la sofferenza interiore cala, pian piano viene meno anche quella fisica: alcune persone che entrano in sedia a rotelle escono camminando sulle proprie gambe, e anche il solo poter raggiungere il bagno in autonomia fa una grossa differenza in termini di qualità della vita e dignità personale.
La dott.ssa Miriam Cornara, ex sindaco di Olginate e responsabile dell’Ufficio provinciale scolastico, ha invece portato la sua esperienza in tali campi: nel 2006, terminato il mandato, sceglie di non rientrare nella scuola primaria come insegnante di matematica e scienze, ma manda una lettera all’ex Provveditorato agli Studi chiedendo di essere messa a servizio dell’Ufficio Provinciale Scolastico. Viene dunque destinata al settore che si occupa di supportare l’autonomia delle scuole, un compito che prevede il fornire loro idee e progetti innovativi. Tra i tanti ambiti, in cui lavora, si occupa in primo luogo dell’orientamento in senso didattico: ossia nel tentativo di mettere in contatto le discipline scolastiche con il mondo del lavoro. Nel progetto “alternanza scuola – lavoro”, in particolare, è prevista una traduzione delle competenze teoriche in pratica: fondamentalmente durante 2-3 settimane dell’anno scolastico, lo studente non va a scuola ma al lavoro. Si tratta di un percorso che parte in seconda con l’orientamento al lavoro (imparare a scrivere un curriculum, formazione sulla sicurezza, giornate in azienda ecc.): molto spesso l’impiego lavorativo da’ un’immagine più completa del ragazzo, lo valorizza come persona, mostrando un altro lato sconosciuto ai professori. La cosiddetta “alternanza spinta” è un progetto che punta invece a combattere in modo più mirato il problema della dispersione scolastica: attraverso l’alternanza con il lavoro, si cerca di riportare a scuola i ragazzi, sottoponendo loro una didattica destrutturata. I docenti si trovano di fronte classi di massimo dodici studenti a cui fanno lezione per tre giorni alla settimana, i tre rimanenti invece sono impegnati in un “organizzazione lavorativa” conforme al loro percorso, indispensabile è dunque la collaborazione con i vari attori del territorio, quali i sindacati.
Il ruolo ricoperto dalla dott.ssa Cornara richiede dunque grande dinamicità, in cui dice di essere stata facilitata dalla precedente esperienza amministrativa come assessore e sindaco, ulteriormente sviluppata in altri ruoli a livello provinciale e regionale.
La mattinata è stata chiusa dall’intervento di Alberto Negrini, presidente del Distretto di Lecco Centro per Confcommercio e, nel mercato della distribuzione di pelletteria e valigeria, imprenditore di terza generazione. Il tratto che caratterizza il commerciante italiano è, secondo Negrini, l’individualismo: nel nostro paese abbiamo sempre avuto infatti una miriade di piccoli negozi, dove la figura del gestore era un “tuttofare”. Uno scenario ben diverso da quello del resto del mondo occidentale, dove si sono molto presto sviluppati poli distributivi-aggregativi e società di una certa dimensione. Il fenomeno della globalizzazione ha accentuato le differenze tra queste visioni: con l’avanzare della nuove generazioni, è conseguenza naturale una diversa gestione imprenditoriale, ben altro tipo di conseguenza è quella indotta dal cambiamento delle leggi. Le norme degli ultimi anni hanno determinato un mercato iperliberalizzato: la politica ha sdoganato catene e poli distributivi: così è venuto meno il limite sociale, determinato dal numero limitato di licenze imposto dal comune. Una liberalizzazione che si è estesa anche agli orari: ora è infatti possibile lavorare anche in quei giorni in cui prima era obbligatorio tener chiuso. Tutto questo ha determinato un asciugamento del mercato ordinario, rendendo evidente quanto ormai fosse obsoleto il modello individualistico. Nel frattempo abbiamo assistito anche ad una iperindustrializzazione con possibilità di de localizzare, non solo la produzione, ma anche la clientela grazie agli sviluppi della tecnologia. I rapporti con i fornitori sono ovviamente cambiati: la riduzione del numero di volte in cui si acquista, da una alla settimana a due all’anno, ha comportato un’accurata pianificazione dello stesso e delle sue conseguenze, considerando come obbiettivo il massimo consumo senza eccesso di acquisto. Dato che l’analisi statistica è indispensabile e, in quanto dipendente dai flussi di mercato, slegata alla natura del prodotto, risulta materia molto tecnica, oggi è impensabile una figura “tuttofare” del commerciante tradizionale, ma è fondamentale affidarsi a professionisti. Così come importante è far rete: un business migliore passa dall’abbattere i costi condividendo le esigenze comuni. Il primo passo è stato, in questo senso, la creazione di un Consorzio, che però con il tempo è imploso sotto le spinte individualistiche. In seguito si è passati alla creazione di una Società SRL: un network di distribuzione di negozi che vendono prodotti simili e che non solo acquistano insieme, come accadeva nel Consorzio, ma anche condividono la medesima impronta gestionale (ad esempio nell’aspetto e negli arredi del punto vendita). Un modello di business, simile al franchising, ma che parte da tante realtà già esistenti: quasi una “catena multimarca”, ognuno con il proprio logo. Questa soluzione, nata con l’idea di dare servizi, ha permesso ai singoli commercianti di continuare ad essere i “titolari” dei propri negozi, di cui costituiscono senza dubbio la miglior risorsa, dal punto di vista della motivazione alla vendita. Lo scoglio maggiore, come ha confessato Negrini, è stato quello, derivato dall’impostazione individualistica di base, di accettare le competenze degli altri. E’ tuttavia chiaro che, rimanendo uniti, si possono affrontare meglio quelli che oggi sembrano problemi, ma che potrebbero diventare le opportunità di domani: in questo senso, tutto da sviluppare è il capitolo dell’e-commerce, una realtà che può far meno del negozio fisico, anche se non è già più vero il contrario.
Il pomeriggio è stato invece dedicato alle differenze di genere: la nostra specie è determinata fisicamente e mentalmente. Indipendentemente dai gusti sessuali, e a parte alcune varianti epigenetiche, abbiamo infatti due sessi ben definiti: maschio e femmina, accomunati, in quanto specie animale, dall’istinto alla riproduzione e alla sopravvivenza. Il nostro istinto però è debole se paragonato a quello di altre specie: di fronte ad una stessa situazione non tutti gli uomini reagiscono allo stesso modo. Entra infatti in gioco la “legge morale” che ci siamo dati per definire cosa è giusto e cosa è sbagliato. A questo si aggiunge un comportamento fortemente specializzato, determinato dalla biologia: uomo e donna sono infatti profondamente diversi. Il modo di approcciarsi al dialogo, ad esempio: la donna, dalla preistoria collante sociale per la comunità, parla per rendere gli altri partecipi dei propri sentimenti. L’uomo, invece, parla per rispondere ad una domanda o se ha una buona ragione: antropologicamente ricopriva il ruolo del cacciatore, per cui dialoghi diversamente motivati non solo erano inutili, ma potenzialmente anche pericolosi. Una buona notizia per i maschietti, dunque, lo sfogo femminile NON ha bisogno di una soluzione, ma solo di un ascolto attento, perché mira alla condivisione dei sentimenti: ottima e apprezzata idea quella di fare domande più precise. Però anche le fanciulle possono imparare qualcosa: sebbene per il gentil sesso dare consigli sia un modo per far capire agli altri che ci si interessa dei loro problemi, per l’uomo è il modo migliore per farlo sentire un fallito. I consigli, per quest’altra metà del cielo, sono infatti apertamente richiesti oppure motivati dal mancato funzionamento di qualche cosa. Diverso anche il modo di gestire lo stress: la donna lo affronta aprendosi al dialogo con gli altri, l’uomo invece si rilassa chiudendosi in sé stesso, evadendo in attività che lo divertono, in assoluta solitudine. Si spiega dunque perché la sera i litigi siano più che mai frequenti quando la donna vuole chiacchierare per sfogarsi e si sente ignorata dal compagno che non vede l’ora di guardare la tv o leggere un giornale per scaricare la tensione “staccando la spina”. Ed è davvero controproducente criticarlo: la paura più grande dell’uomo è infatti quella di “non essere all’altezza”, per questo deve imparare a dare, superando il timore di perdere il controllo. La donna al contrario pensa spesso di non meritare l’amore e quindi deve riuscire a darsi dei limiti nel donare: al contrario deve imparare a ricevere anche se, spesso, quello che ottiene non è quello che si aspetta. Le donne sono dunque più simili a onde: al massimo della loro altezza donano amore, nel punto più basso misurano il risultato di tanto dare, gli uomini invece sono elastici, che devono allontanarsi per potersi riavvicinare. Ma esistono delle “parole magiche”? Indagando fra i partecipanti al master sembrerebbe che con i ragazzi le frasi chiave siano “non è colpa tua” e “sono felice di poterne parlare con te”, mentre le ragazze apprezzano espressioni che garantiscono sicurezza e interessamento (“tornerò, sono qui per te” e anche un semplice “come è andata”). Queste differenze ancora una volta sono determinate dai diversi bisogni emotivi: le femmine cercano infatti l’attenzione (sollecitudine, comprensione, rispetto, devozione, rassicurazione) ed esprimono sentimenti ed emozioni con il volto e le parole, i maschi al contrario usano il corpo e cercano apprezzamento e ammirazione (fiducia, accettazione, incoraggiamento). Questi due mondi sembrano destinati ad entrare in collisione e il litigio è dietro l’angolo sia quando l’uomo sente che la donna lo disapprova, sia quando la donna è infastidita da come l’uomo e le parla o l’ascolta: entrambi infatti si sentono attaccati personalmente, messi cioè in discussione sulla loro identità. Tuttavia sapendo questo, in teoria, non dovrebbe essere difficile trovare una strada per far pace: “dare” per le donne significa essere persone migliori, e le piccole cose, come le grandi, sono importanti perchè dimostrano attenzione. L’uomo, se incoraggiato, cerca veramente di fare il possibile per accontentare la compagna, a patto che lei spieghi esattamente cosa vuole da lui. Per chi volesse approfondire, ci sono diversi i libri consigliati: dal recente “Le coccole perdute” di Giacobbe all’evergreen “Gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere” di John Gray, insomma gli esempi teorici sono tanti…per la pratica, in bocca al lupo, anche se il fatto che non ci siamo ancora estinti lascia ben sperare.
By Chiava Vassena