La lezione sulla conciliazione famiglia-lavoro è stata tenuta da Egidio Riva, un esperto della materia, che conosce sia dal punto di vista teorico, lavorando come docente all’Università Cattolica, sia nella realizzazione pratica, collaborando con Regione Lombardia su progetti relativi a queste tematiche.
Un tema, quello della conciliazione famiglia-lavoro, che fino a 10 anni fa era sconosciuto ai più e che invece oggi è onnipresente, anche se spesso frainteso. I ragazzi hanno provato a dare la loro definizione e l’hanno identificato come un tentativo di rispondere alla difficoltà, avvertita soprattutto dalle donne, nel ‘tenere insieme’ lavoro e della famiglia. Ma si tratta di due realtà che sono effettivamente in conflitto? Ed è davvero un problema tutto femminile? L’impostazione fordiana, secondo cui un “buon padre è un buon lavoratore”. ha consolidato una divisione di genere, messa in discussione dalle donne svedesi che, negli anni ’70, hanno cominciato ad essere massicciamente presenti nel mondo del lavoro, chiedendo riconoscimenti. Negli anni ’90 l’UE ha cominciato a promuovere un sistema con più attori (datori di lavoro, enti amministrativi e governativi…), politiche e ambiti al fine di attuare pari opportunità per uomini e donne.
La conciliazione è infatti in realtà una tematica che tocca entrambi i sessi: il genere femminile viene spesso penalizzato in ambito lavorativo, ma quello maschile ha al contempo un grosso svantaggio nelle cure parentali. Si tratta però di una materia complessa che ha a che fare con il benessere individuale e familiare del lavoratore, anche dal punto di vista economico, mira ad un miglioramento della qualità della vita, ma incide anche nella competitività tra le aziende.
Nel mondo americano, ad esempio, le imprese cercano di fornire migliori servizi per attrarre e fidelizzare le migliori risorse. La conciliazione famiglia-lavoro è così parte delle politiche del lavoro, non un problema sociale, anche se il risvolto della medaglia è quello di creare lavoratori di serie A, manger e professionisti super qualificati, e B, personale non specializzato
In Europa, e in Italia, la conciliazione è percepita invece come un diritto di tutti e per questo è materia delle istituzioni pubbliche. Con la crisi attuale viene inoltre spesso a mancare uno dei due termini, il lavoro, anche se investire nella conciliazione famiglia – lavoro è una strategia ottimale anche in mancanza di risorse perché le donne lavoratrici comportano un’esternalizzazione di servizi (lavanderia, pulizia della casa, cura dei bambini ecc.) che creerebbe nuovi posti di lavoro.
Oggi nel nostro paese le aziende possono intervenire su base volontaria, ad integrazione delle misure già previste dalla legislazione, anche per consentire ai propri dipendenti di poter gestire al meglio le molteplici domande di ruolo, venendo cioè incontro, non solo a coloro che hanno famiglia, ma a tutti quelli che hanno bisogno di trovare un equilibrio tra vita lavorativa ed esigenze personali. Molteplici le dimensioni su cui agire: da quella organizzativa (relativa cioè a tempi e luoghi), a quella economica (retribuzione e benefit), culturale (formazione e comunicazione); dei servizi (cura, time saving). L’obiettivo deve essere ‘virtuoso’ ossia, secondo lo schema di Porter e Kramer, costituire un ‘valore condiviso’ che massimizzi efficacia ed efficienza, interesse dell’azienda e bisogni dei lavoratori. Politiche di questo tipo agiscono sia nella sfera lavorativa, rendendola più efficiente e rispettosa delle esigenze dei lavoratori, e familiare, riducendo le tensioni interne. Ciò comporta una serie di vantaggi individuali (riduzione dello stress, senso di appartenenza..) ma anche aziendali (miglioramento clima, fidelizzazione, immagine positiva..).
Tuttavia ogni misura impatta diversamente dalle altre, alcune usate insieme migliorano i risultati o, al contrario risultano controproducenti, altre ancora risentono di variabili organizzative, inoltre bisogna considerare il gap tra piano ideale e pratico. Insomma i risultati non sono generalizzabili, ma strettamente connessi alle caratteristiche della forza lavoro, dell’impostazione culturale ecc. Nel contesto italiano, ad esempio, è culturalmente affermato un modello presenzialista, per cui la presenza al lavoro è sinonimo di professionalità, quando al contrario alcuni studi dimostrano che quest’impostazione a volte favorisce un dilazionamento dei tempi del lavoro: se l’assenza, in seguito ad orari flessibili, sarà percepita come mancanza, allora questa misura non verrà utilizzata per i suoi risvolti culturali negativi.
Importantissima rimane dunque la metodologia: innanzitutto l’analisi preliminare con la valutazione, attraverso uno strumento di rilevazione adeguato, dei bisogni e dei desideri della forza lavoro. A questa segue la definizione di una strategia, stabilendo obbiettivi, con una comunicazione che coinvolga e crei consenso nei lavoratori. Infine implementazione e valutazione, per consolidare nel tempo la strategia: si tratta di un vero e proprio investimento che, se non trova formalizzazione ma rimane ‘una tantum’, darà risultati limitati.
Il pomeriggio è stato invece dedicato all’intervento di un giovane e affermato imprenditore: Andrea Beri, presidente del gruppo giovani di API e titolare della Ita Spa di Calolziocorte, azienda che da tre generazioni produce acciaio dalle più svariate applicazioni. Con molta onestà Beri ha raccontato la sua esperienza personale, costellata di ostacoli e successi: dall’esperienza scolastica come ‘studente mediocre’ a quella universitaria, nella difficile facoltà di ingegneria a cui è riuscito ad accedere, nonostante il numero chiuso, spronato forse proprio dalla sfida lanciata da un professore che non credeva nelle sue capacità. Studi poi interrotti per partecipare al servizio militare: in questo mondo, con i suoi pro e contro, Beri ha avuto anche l’occasione di imparare molto facendo carriera come sindacalista interno. In seguito l’ingresso nella trafileria di famiglia, in turno in reparto: con una madre presidente e un padre responsabile dell’area commerciale, Beri ha imparato a gestire la comunicazione, talvolta difficoltosa, tra direzione e lavoratori. Oggi Andrea Beri è amministratore delegato su tre aziende, dopo aver acquisito una compagine imprenditoriale in Veneto da alcuni ex soci. L’inizio della crisi nel 2009 ha però comportato una serie di preoccupazioni riguardo a quelli che sembravano licenziamenti inevitabili: investendo invece sulla ristrutturazione dell’azienda si è riusciti a triplicare la produzione e a divenire leader del mercato italiano. “Di fronte alle difficoltà non bisogna tirarsi indietro ma mettersi in gioco, vivendo l’azienda con la stessa passione con cui si vive la propria realtà familiare”: questo, secondo Beri, il marchio del vero imprenditore, che deve inoltre essere distinto da una correttezza e un’etica che gli permettano di fare scelte responsabili.
by Chiara Vassena