Paolo Corti, professione archeologo, ha cercato di spiegare nella lezione del 16 maggio, in cosa consista veramente il suo lavoro, nell’immaginario comune ancora identificato con quanto fa Harrison Ford in “Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta”. Innanzitutto l’archeologo non lavora da solo ma in una squadra: coordinando un equipe di specialisti di varie materie con competenze diverse, inoltre tutto parte da una ricerca pura, oppure da un rinvenimento casuale. Ancora più a monte, è però prioritaria la domanda: perché studiare il passato? I ragazzi hanno provato a rispondere al dubbio amletico che ha assillato generazioni di studenti. La “memoria storica” permette all’uomo di continuare a salire nella scala dell’evoluzione, di continuare ad esistere come specie, a differenza degli animali che ad ogni nuova generazione si ritrovano punto a capo perché incapaci di “insegnare”, ossia trasmettere conoscenze.
Ma come si svolge il lavoro dell’archeologo? In mancanza di un rinvenimento, si devono cercare indizi, “anomalie” nella natura (forme geometriche individuate dalle foto satellitari, differenze nel colore del terreno ecc.). Segue la ricerca di superficie condotta con gli strumenti del mestiere (pennello, cazzuola e bisturi), seguendo segnali come l’antropizzazione del terreno. A questo punto si procede con una sezione del suolo in cui, ovviamente, ciò che si trova in alto è più recente. Ovviamente fino ad un certo punto: si tratta infatti di un metodo di indagine adottato a partire dagli anni ’70, prima infatti ci si limitava a scavare grandi buche per recuperare oggetti integri, si cercava il manufatto nella sua interezza trascurando i singoli frammenti e la suddivisione temporale data dalla profondità. Quest’ultima però non è l’unica dimensione che entra in gioco, fondamentale è infatti anche lo scavo in estensione: pezzi vicini spesso hanno un legame motivato. In ogni caso ciò che è importantissimo è documentare il più possibile e con tutti gli strumenti a disposizione l’evoluzione dello scavo archeologico: si tratta infatti di un processo che non può essere ripetuto. Nel farlo dobbiamo avere un occhio al futuro e uno al passato: all’esposizione e ai futuri studi, ma anche al messaggio dietro al reperto archeologico, un messaggio che non sempre siamo in grado di capire ma che abbiamo il dovere di custodire. Forse qualcuno potrà un giorno spiegarlo, o forse no: d’altra parte i simboli racchiudono un’idea valida all’interno di un sistema di conoscenze e quando questo si perde, diventa difficile, se non impossibile, interpretarli. In ogni caso gli indizi che possono essere utili all’archeologo sono molteplici: anche i cosiddetti “elementi poveri” o di scarto danno informazioni importanti (le ossa degli animali ad esempio raccontano quali specie fossero presenti, se da allevamento o da caccia, se diverse da quelle attuali per un cambiamento del clima e così via), è importante perfino quello “che non c’è” (lo studio dell’architettura di una struttura può partire proprio dalla forma delle buche lasciate nel terreno dai pali, studio che permette di determinare l’inclinazione degli stessi). Un insieme diversificato che necessita appunto del lavoro di vari esperti e che si conclude con la ricostruzione e il tentativo di reinterpretazione da parte dell’archeologo. In realtà sussistono diverse linee di pensiero di fronte ad un reperto danneggiato: si può ricostruire lo stesso, oppure reintegrare le parti mancanti con un materiale che renda distinguibile l’intervento del restauratore, o ancora esporre l’oggetto così come lo si è ritrovato realizzando una copia di quella che si ipotizza fosse la sua figura originaria.
La nostra zona si presenta ricca di testimonianze: se nel 1988 i ritrovamenti archeologici ammontavano a 480, oggi se ne contano ben 150 in più, di cui una settantina, tra torri e castelli, nella sola Valsassina. Una storia che prende il via dal Paleolitico, epoca a cui risalgono le selci trovate nel meratese, per poi passare alle testimonianze del Mesolitico, con ritrovamenti di sassi scheggiati nella zona dei Corni di Canzo, per arrivare all’industria microlitica del Neolitico. Paolo Corti ha fatto riflettere i partecipanti del master sul grande rispetto che è giusto tributare ai nostri antenati, che dimostravano capacità manuali e conoscenze geologiche nella scelta delle pietre non indifferenti: non dimentichiamoci infatti che non avevano nulla e si sono dovuti inventare tutto. Nell’eneolitico, in particolare, si registrano numerosi reperti della cosiddetta “Cultura di Civate”, nella cui scoperta, purtroppo, la mancanza di un attento lavoro di documentazione ha determinato la perdita del messaggio originale. Contemporaneamente anche a Ello si sviluppava un’altra cultura con caratteristiche del tutto peculiari: è quella dei “vasi a bocca quadrata”. Tra menhir, incisioni rupestri e sassi coppellati, si arriva all’Età dei metalli, con lo sviluppo delle palafitte, determinato da un’intelligente scelta economica, e in particolare nell’Età del Bronzo, con quello del commercio, con Alto Adige e Liguria. La seconda parte della mattinata è stata dedicata a un tema importante: è possibile una gestione “imprenditoriale” dei beni artistici? Corti ha individuato proprio in questa terminologia l’origine di una concezione che vede la cultura come un riempitivo. La storia del restauro può essere d’aiuto: dopo la Conferenza di Atene del 1931, motivata dalle distruzioni che la guerra aveva determinato, nel ’64 con la Carta di Venezia si definiscono come meritevoli di tutela i soli “monumenti” e la “Carta italiana del restauro” del 1972 conferma l’idea che il valore del passato risieda solo nell’“opera d’arte”. Una visione dunque fortemente limitante, che esclude in toto, ad esempio, l’archeologia e la paleontologia e, in generale, i reperti incompleti. In Francia al contrario si parla di “patrimonio” suggerendo implicitamente che l’arte, la cultura e la storia siano qualcosa che si eredita e che si trasmette, ma che si può anche far fruttare. L’Italia, che presenta in ogni regione almeno una “Pompei”, potrebbe moltiplicare i posti di lavoro e risollevare l’economia percorrendo questa strada: l’ingresso gratuito nei musei e l’impiego di volontari determinano inoltre un danno nei confronti di chi ha un certo titolo di studio, si tratta infatti di una grave perdita di professionalità. Giustamente la cultura è di tutti, se però lo Stato deve tutelare questo diritto mantenendolo”gratuito”, allora dovrebbe fare lo stesso per tanti altri servizi di importanza primaria che pur hanno dei costi per i cittadini. E’ però necessario un radicale cambiamento nell’idea di museo: non un deposito aperto al pubblico, ma un organismo vivo, un polo di ricerca e didattica, in grado di produrre cultura. Insomma la cosa importante non è tanto far venire i visitatori, ma far sì che tornino, e in Italia, che è un museo a cielo aperto, questa potrebbe costituire davvero una via di uscita dalla crisi.
Il pomeriggio è stato invece dedicato al tema dell’e-commerce: ovvero come fare soldi su internet. la diffusione degli smartphone ha determinato una crescita importante degli utenti di Internet: basti pensare che, ad oggi, sono milioni le persone che si connettono utilizzando unicamente la telefonia. I dati confermano che la pubblicità di Google, il più grande venditore di pubblicità al mondo, da’ un rientro tra il 5%-10% contro lo 0, 05% del volantinaggio: non è un caso dunque che ci sia stato un crollo degli investimenti in altri settori pubblicitari, mentre Internet rimane l’unico settore di crescita anche in tempi di crisi. Si tratta dunque di un campo in cui nessuno può permettersi di non giocare: se non partecipi, lo faranno sicuramente i tuoi concorrenti. Ci sono però buone notizie per i nostalgici della vendita “face to face”: tra le caratteristiche del commercio online c’è quella di basarsi sulla “reputation”, quindi le truffe hanno una percentuale inferiore all’1%, inoltre non occorre troppa inventiva perchè il cliente si aspetta un procedimento standard, con passaggi prestabiliti. Grazie a Google Analytics si può anche sapere quanti sono i miei clienti potenziali: il trucco è cercare delle “parole giuste” che mi permettano di farmi trovare dal maggior numero di persone, finendo sulla SERP, la prima pagina di Google, dove ci si può collocare anche utilizzando gli annunci a pagamento (per i quali, ogni volta che un potenziale cliente clicca, bisogna pagare una certa somma a Google). L’e-commerce in senso stretto, un negozio online che prevede ricerca, carrello, iscrizione, compilazione e pagamento e tracking, funziona particolarmente bene per i prodotti confezionabili. Tuttavia esiste anche un mercato per sevizi e prodotti particolari, anzi: Chris Anderson nel testo “La lunga coda” ha dimostrato che su Internet hanno successo specialmente i progetti con un bacino di vendita di “nicchia” perché, paradossalmente, sono più facili da trovare rispetto a quelli più generici, per i quali funziona meglio un tipo di pubblicità tradizionale. Si parla a questo proposito si SEM Marketing che comprende attività che generano un traffico cosiddetto “qualificato” nella direzione di un sito web: un canale di vendita che utilizza “landing page” e “splash page”, le prime sono pagine su cui “atterri” e che non permettono navigazione interna ma solo una maschera in cui inserire i propri dati, le seconde si collocano invece all’interno del sito. In ogni caso è molto importante in primo luogo “reach” raggiungere il cliente e lo si può fare non solo utilizzando Google, che permette una selezione solo spaziale, ma anche Facebook che dà la possibilità di filtrare il target di clienti per età anagrafica, titolo di studio, luogo ecc. Lo scopo è quello, passando per “acquisition”, “conversion” dell’interessato in cliente, di concludere il ciclo della vendita con la “retention”: la fidelizzazione. Davanti alla tecnologia ormai possiamo solo essere “re-attivi” e agire come di fronte ad un obbligo, o “pro-attivi” e vederla come la grande opportunità che è.
By Chiara Vassena